イタリア学会誌
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論文
ピランデッロ『自分の話じゃないよ』(1933年)の作者推定問題について
─息子ステファノが自分の個人的な思いを埋め込んだ箇所はどこか?─
斎藤 泰弘
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2018 年 68 巻 p. 25-50

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抄録

L’articolo Non parlo di me di Luigi Pirandello vede la luce nel numero di gennaio-marzo del 1933 dell’Occidente e utilizza il testo di una conferenza tenuta ad Alessandria d’Egitto nel dicembre del 1932. Saggi, Poesie, Scritti vari (1977, 4a ed. riveduta, cur. Manlio Lo Vecchio-Musti), tuttavia, non lo riporta se non con una nota in calce che lo annovera fra gli apocrifi: «apparsi […] valendosi della collaborazione di taluno» a cui Pirandello sembra aver fornito «traccia e sommarie indicazioni», e «taluno» sembra dunque indicare Stefano, figlio di Luigi Pirandello.

La nuova edizione di Saggi e Interventi (2006, cur. Ferdinando Taviani) accoglie invece anche gli scritti non autentici in quanto «frutto d’una collaborazione fra Luigi Pirandello e il suo figlio scrittore», giustificando questa scelta come una «scrittura che non era a quattro mani, ma a due teste, mediata o a specchio» dalla quale sarebbero scaturite «le pagine critiche e saggistiche a nostro parere più acute e personali» pirandelliane. Un esempio ne è l’articolo Non parlo di me, al centro di questo studio.

In quel testo, il presente lavoro mostra come due elementi appaiano con chiarezza: da una parte l’obbedienza ossequiosa e l’amore filiale di Stefano verso il padre, che non esclude, dall’altra, una sorda ostilità verso la grandezza del padre stesso. In breve, il testo lascia filtrare le tracce della profonda e inquietante ambivalenza di Stefano nei confronti del padre Luigi.

Un esempio del rispetto che Stefano nutre verso il padre traspare in un commovente ricordo d’infanzia dell’artista che si trova nel testo: «Per giungere dove giungerà gli è necessaria una scuola di vita. […] Buona fede, credulità e rispetto assolutamente necessari per accumulare amari disinganni, crudeli delusioni, feroci colpi […], e l’educazione dello spirito, compiuta così a proprie spese, serve a farlo crescere […] e a lasciarlo, com’è giusto che sia un artista, inadatto alla vita». Questo ricordo appartiene indubbiamente all’infanzia di Luigi e non sembra essere stato filtrato dall’esperienza del figlio Stefano. Altro fattore che sembra avvalorare questa ipotesi è il fatto che Pirandello narrerà lo stesso ricordo due anni dopo, riutilizzando esattamente le stesse parole nel discorso al banchetto per il Premio Nobel. È evidente che qualora fosse il padre ad essersi appropriato di un ricordo personale del figlio, ci troveremmo di fronte a un plagio.

L’ostilità del figlio sembra invece rintracciabile in un brano che illustra la trappola in cui può cadere l’artista se si autocompiace della propria fama. Rimproverando l’autocompiacimento, il narratore (certo non difficile da identificare) accusa con accanimento l’artista di fama (altrettanto chiaramente identificabile). Davanti ai severi rimproveri di aver «buttato a mare come zavorra il grosso peso» per navigare col cuore sereno, l’accusato è costretto a discolparsi: «Non abbiamo buttato a mare nulla: abbiamo, ecco, situato quel peso nella stiva, nel miglior modo possibile. E poi ce ne siamo dimenticati, o meglio, abbiamo fatto di tutto per potercene dimenticare. Ci siamo distratti: i piccoli incidenti di navigazione, gli spettacoli da ammirare sono divenuti l’oggetto principale della nostra attenzione».

L’accusato sceglie di articolare la propria difesa con immagini metaforiche che richiamano il viaggio per mare: «buttare a mare il peso», «i piccoli incidenti di navigazione», «gli spettacoli da ammirare». Secondo la nostra interpretazione, la prima metafora sembra alludere all’internamento della moglie Antonietta in un ospedale psichiatrico; la seconda ricorda allo choc subito dai figli nel momento in cui il padre si innamora della giovane attrice Marta Abba; l’ultima sottende infine l’attività teatrale di Luigi che lo ha portato a trascurare la famiglia.

(View PDF for the rest of the abstract.)

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