イタリア学会誌
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65 巻
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論文
  • 藤谷 道夫
    2015 年 65 巻 p. 1-36
    発行日: 2015年
    公開日: 2017/03/27
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    Nel 1302, come è noto, Dante fu condannato alla pena capitale ed esiliato da Firenze. Il doloroso episodio della vita del Poeta non può essere estraneo ai luoghi della Commedia in cui vengono presentati tre politici accusati ingiustamente: Pier della Vigna, Pier de la Broccia e Romeo di Villanuova. In questo lavoro, partendo dai testi relativi a questi personaggi, si vuole mostrare come dalle loro dolorose vicende Dante intenda far emergere il concetto di armonia provvidenziale.

    In primo luogo, si vuole richiamare alla mente la terzina sui suicidi

     

    Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,

    che cacciar de la Strofade i Troiani

    con tristo annunzio di futuro danno. (Inf. XIII 10-12)

     

    A questo proposito, i commentatori si limitano a citare il virgiliano Aen. III 245-268, ma non procedono a precisare in cosa consista il tristo annunzio. Viceversa, si ritiene importantissimo considerare il modo in cui il presagio dell’Arpia, infelix vates dei destini troiani, sia giunto a realizzarsi: attraverso la terribile fame che constrinse i Troiani a divorare le rose mense prima di poter fondare una città. Il testo virgiliano mostra la realizzazione della profezia nelle parole di Iulo (Aen. VII, 112-119). Il testo dantesco, tuttavia, implica il senso che il triste annunzio dell’Arpia si trasformi in una benedizione, perché contiene in sé anche la conclusione degli affanni del viaggio.

    Agli occhi del Poeta, questa vicenda appare legata all’azione della Provvidenza, individuabile anche nella storia di Giuseppe nella Genesi: Dio ha pensato di fare il male servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera (Gen. 50, 20). Le Arpie non sono qui per caso: si pascono delle foglie dei suicidi, simbolo dell’angustia di mente, della miopia dello spirito umano che non sa vedere oltre i propri affanni. Accurato simbolo di questa debolezza umana è Cavalcante padre nel X canto dell’Inferno, in cui emerge proprio la tipicità delle reazioni umane di fronte all’inquietudine arrecata dal pensiero del futuro. I suicidi, nel pensiero dantesco, sono quanti rinunziano al futuro arrendendosi alle difficoltà del presente e abbandonando la speranza e realizzando così la profezia dell’Arpia.

    Così anche Dante viator, ammonito da Farinata sul futuro esilio, rimane “smarrito” (Inf. X 125): anch’egli avrebbe potuto subire lo stesso fato, anche se sappiamo che, tanto Farinata quanto l’Arpia, trovandosi all’Inferno, possono aver accesso solo a una conoscenza frammentaria del futuro, essendo ad essi tale conoscenza preclusa nella sua totalità. La colpa del suicida Pier della Vigna è l’aver giudicato e sentenziato per sé la pena di morte, arrogandosi un diritto che spetta solo a Dio, nonostante l’ammonimento che si trova in Tommaso (Summa II-II, q.64, a.5, ad.2) nullus est iudex sui ipsius.

    Viceversa, Piero de la Broccia (Purg. VI) subisce la pena di morte affidandosi alla sorte e perdonando i suoi nemici, e per questo trova la salvezza (vv. 19-22), e Romeo di Villanuova (Par. VI) sceglie invece l’esilio e una vita condotta col “mendicare boccone per boccone il pane per vivere” (vv. 112-114; 124-142). In questa prospettiva, vediamo come nelle vicende di questi tre personaggi si racchiudano i tre possibili sviluppi della vita futura di Dante.

    Cacciaguida, in Par. XVII, vedendo il futuro del discendente, gli indica la via da percorrere e si riferisce ad essa come dolce armonia (Par. XVII 43- 45). Gli mostra così come l’esilio non sia una maledizione, ma una benedizione e un vero onore, un dono del cielo. Di conseguenza, non si può trascurare di menzionare che la stessa dolce armonia è nominata anche all’inizio della descrizione della vita di Romeo (Par. VI 124-126).

    La parola armonia si trova nella Commedia soltanto tre volte e soltanto nel Paradiso. Nel primo canto del Paradiso, Dante proclama che l’armonia

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  • ─I PROMESSI SPOSIに書き込まれた「読者」について─
    霜田 洋祐
    2015 年 65 巻 p. 37-60
    発行日: 2015年
    公開日: 2017/03/27
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    Di pari passo con i cambiamenti radicali nella modalita di fruizione dei romanzi e con l’aumento della loro importanza all’interno del sistema letterario, sorgeva negli scrittori del primo Ottocento il bisogno di instaurare un nuovo rapporto col pubblico. Non di rado quindi essi intervenivano nel testo in prima persona rivolgendo degli appelli ai loro lettori. Anche nei Promessi sposi il narratore-autore rivolge di frequente la parola al suo lettore, o meglio, ai suoi «venticinque lettori» come li definisce nel primo capitolo. E proprio in questo rivolgersi al pubblico e nel linguaggio usato, come già alcuni critici giustamente mettono in evidenza, si possono definire le caratteristiche che rendono l’opera manzoniana il primo “romanzo moderno” della storia della letteratura italiana. Nel confronto con romanzi appena precedenti o contemporanei, infatti, la novità del rapporto che l’autore dei Promessi sposi cerca di intrattenere con un pubblico nuovo e vasto si mostra in tutta la sua originalità. Tuttavia, la comunicazione tra l’autore-narratore e il narratario-lettore nel testo dei Promessi sposi mostra qualcosa di nuovo anche rispetto ai modelli ottocenteschi d’Oltralpe, non tanto per il contenuto degli appelli al pubblico, quanto per la frequenza, o meglio per l’insistenza, con cui si fa riferimento all’atto della lettura.

    Il narratore nei Promessi sposi, a differenza del maestro che guida i propri discepoli, parla da pari al lettore e gli chiede di ricompensare la sua “fatica” di scrivere impegnandosi nella lettura, partecipando cioè all’interpretazione degli eventi narrati e dei sentimenti dei personaggi. Frequenti sono, infatti, i verbi iussivi (imperativi o congiuntivi) che esortano a riflettere sulla situazione, a cominciare dalla celebre frase del primo capitolo: «Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato» (PS, I, 60). Tuttavia il narratore non si aspetta da chi legge una competenza particolarmente profonda, dal momento che le risposte attese sono per lo più palesi, come nelle domande retoriche, e quindi, in realtà, ai «venticinque lettori» basta solo richiamare alla mente lo svolgersi della vicenda fino a quel momento. In questo senso, non solo alcuni eletti del pubblico ma virtualmente “tutti” possono considerarsi parte dei «venticinque lettori». Si può dunque ritenere coerente l’ambiguità mostrata dalla fisionomia dei «lettori», pur essendo essi ben ancorati al sistema culturale dell’epoca. In questo rivolgersi a una pluralità di persone indeterminate si cela una novità nella retorica dell’“appello”: nei Promessi sposi, come mette in evidenza Rosa (2004), manca del tutto «il segno del tu». Vengono invece utilizzate la seconda persona plurale “voi” e la terza persona di “lettore/lettori”, mentre un vero appello, in linea con quello tradizionale, richiederebbe una conversazione enfatica e diretta espressa dal “tu” rivolto al singolo lettore e di solito accompagnato dal vocativo.

    In queste osservazioni, che prendono in considerazione l’appello rivolto al “voi” e alle figure del “lettore/lettori”, si tralascia una classe di enunciazioni che il narratore rivolge al narratario-lettore. Si tratta di casi in cui il narratore usa il “noi” inclusivo del lettore (equivalente a “voi ed io”). Questo uso del “noi”, che potrebbe essere definito un “noi” affettivo, è meno appariscente delle espressioni che abbiamo mostrato sopra, essendo l’appello rivolto tanto al lettore quanto al narratore stesso, ma è di considerevole importanza per il largo uso che se ne fa nel romanzo. Appare infatti circa 140 volte, si tratta quindi di occorrenze numericamente significative (benché il “noi” autoriale, una variante del plurale di maestà, sia ancora più frequente). Ancor più significativo ci sembra il fatto che superi l’uso pur largo del voi riferito al lettore (75 volte). L’analisi

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  • ─息子ステファノの加筆部分は何を物語るのか?─
    斎藤 泰弘
    2015 年 65 巻 p. 61-86
    発行日: 2015年
    公開日: 2017/03/27
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    Sei personaggi in cerca d’autore, opera drammatica grazie alla quale il nome di Pirandello divenne improvvisamente famoso in tutto il mondo, sollevò scandali clamorosi fra il pubblico e accanite controversie fra i critici. L’eccessiva originalità della forma e l’audacia, per i tempi, del contenuto mostrarono infatti il potere di frantumare il tradizionale teatro borghese fino ad allora applaudito dal pubblico. Con l’intenzione di chiarire i presunti fraintendimenti, Pirandello scrisse una Prefazione alla IV edizione dell’opera, che finì purtroppo per rendere le cose ancora più confuse, lasciando trasparire un ambiguo odore di compromesso clandestino e di tacito consenso alle critiche di Adriano Tilgher. Ciò ha indotto gli studiosi del dopoguerra a soprannominare Tilgher “un malo consigliere” (Giudice 1963), il “Castelvetro di Pirandello” (Moestrup 1967) e, in anni più recenti, addirittura a tentare di spiegare l’ambigua interdipendenza tra Tilgher e Pirandello con la “sindrome di Stoccolma” (Barbina 1992).

    Il ritrovamento di nuovi documenti da parte di Alessandro D’Amico, figlio d’arte del grande critico teatrale Silvio, ha permesso però in tempi recenti un chiarimento definitivo. D’Amico, nel 1993, ha trovato alcune annotazioni di Stefano Pirandello, figlio di Luigi, apportate in margine al testo della Prefazione dell’edizione mondadoriana del 1958, e dieci cartelle battute a macchina dal padre, contenenti un abbozzo della Prefazione stessa. Grazie dunque agli appunti di Stefano che testimoniano il proprio intervento, è possibile istituire un confronto fra quanto scritto dal padre e quanto ritoccato dal figlio.

    Dei quarantanove paragrafi della Prefazione, la parte rielaborata da Stefano riguarda gli ultimi ventiquattro (dal ventisei al quarantanove). In margine al ventiseiesimo paragrafo Stefano annota: Da qui comincia la pedissequa disamina, personaggio per personaggio e situazione per situazione, che è tutta opera mia, autonoma, fatta cioè senza consigli di papà, ossia dovuta “trovare” da me, nei concetti, negli argomenti, inventandomi critiche da nessuno avanzate ma che mi servivano di pretesto ad azzeccate repliche (...). Un confronto accurato fra l’abbozzo del padre e la versione del figlio mostra però che quanto affermato da Stefano sembra non essere del tutto esatto. La rielaborazione può essere riassunta nei seguenti termini: 1) alterazione del significato originario dell’abbozzo attraverso l’inserzione nel testo delle proprie osservazioni (par. ventisei); 2) sostituzione ed eliminazione delle espressioni sconvenienti o troppo forti del padre (parr. quarantaquattro e quarantacinque); 3) riscrittura dell’originale allo scopo di elogiare più chiaramente l’opera del padre (parr. quarantotto e quarantanove); 4) attribuzione a se stesso della lunga descrizione della personalità della Madre dei sei personaggi (da par. trentasette a par. quarantadue), di cui Stefano può giustamente vantare che la rielaborazione è tutta opera sua, autonoma, fatta cioè senza consigli di papà.

    L’analisi dei ritocchi apportati da Stefano e il confronto con l’originale del padre consentono dunque di concludere che tutta la parte della Prefazione in cui viene accolta l’interpretazione filosofica di Tilgher appartiene solo ed esclusivamente a Stefano e che conseguentemente Luigi Pirandello non aveva cambiato la propria opinione anti-filosofica. Dall’altra parte, quanto si legge nella parte relativa alla Madre elaborata da Stefano rivela il suo forte attaccamento alla madre reale e cela una tacita accusa verso il padre, che l’aveva fatta internare in un manicomio sei anni prima.

  • 國司 航佑
    2015 年 65 巻 p. 87-116
    発行日: 2015年
    公開日: 2017/03/27
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    Intorno al carattere e al significato del decadentismo italiano, c’è stato un lungo e acceso dibattito a cui hanno partecipato molti studiosi, quali Binni, Praz, Salinari e Ghidetti. In quanto loro testo di riferimento, il saggio di Benedetto Croce Di un carattere della più recente letteratura italiana, pubblicato sulla sua rivista «La Critica» nel 1907, può essere collocato al principio di questo dibattito.

    Nello scritto in questione, Croce divide cronologicamente la letteratura contemporanea in due gruppi: il primo (1865-1885) rappresentato da Giosuè Carducci e il secondo (1885-1907) dalla triade Fogazzaro-Pascoli-d’Annunzio. Croce istituisce un confronto fra i due gruppi, per poi asserire che, benché nel periodo più recente la letteratura possieda “la maggior finezza e complicazione spirituale”, tuttavia in essa “spira vento d’insincerità”. A queste seguono parole ancora più aspre ed ironiche: “nel passar da Giosuè Carducci a questi tre sembra, a volte, di passare da un uomo sano a tre neurastenici!”. Nel complesso, il giudizio crociano nei confronti del decadentismo italiano si mostra con evidenza in termini assai negativi.

    Sarebbe tuttavia errato ritenere che il giudizio di Croce sia sempre stato tale. Nel saggio su Carducci pubblicato nel 1903 su «La Critica», accingendosi all’esame dell’opera carducciana, Croce riconosce alla letteratura del periodo più recente un valore che non era possibile riscontrare in precedenza, defindolo “ben più serio e sostanzioso di quello che ad esso immediatamente precedette”. Croce, evidentemente, in quell’anno non vedeva ancora elementi discriminanti all’interno della letteratura contemporanea; anzi, attribuiva ad essa una posizione più significativa rispetto a quella del periodo tardoromantico. Inoltre, nel saggio su d’Annunzio del 1904, Croce vede nel poeta “una delle prove più sicure della rinascita di un’arte italiana, la quale ha assimilato, e sa esprimere in modo proprio e originale, le correnti spirituali dell’età moderna”. In queste parole emerge un’opinione molto positiva, incongruente rispetto all’atteggiamento mostrato da Croce nel 1907. Il fatto che a molti studiosi la sua posizione sembri coerente potrebbe essere attribuito a una maggior diffusione dei quattro volumi della Letteratura della nuova Italia (1914-1915), raccolte che sembrerebbero contenere tutti i saggi di critica letteraria pubblicati dal 1903 al 1914 su «La Critica», nella serie Note sulla letteratura italiana della seconda metà del secolo XIX, ma ricordiamo che essi non comprendono il suddetto saggio su Carducci. Inoltre, il capitolo su d’Annunzio si presenta con modifiche non trascurabili: eliminando molti passi elogiativi tra cui quello citato, rende palesemente meno positivo il giudizio crociano su d’Annunzio.

    Pertanto, è difficile negare che il giudizio espresso negli anni 1903-1904 contrasti in modo deciso con quello di tre anni dopo. Si può supporre che in questo lasso di tempo si sia verificato qualche avvenimento di gravità tale da indurre Croce a cambiare drasticamente il proprio atteggiamento. Da questo punto di vista, sappiamo che Croce si è dedicato alla ricerca delle opere pascoliane verso la fine del 1906. Non è da ignorare, inoltre, che è di questi anni l’apparizione di alcune opere fondamentali della nuova generazione filosofico-letteraria italiana, fortemente influenzata da d’Annunzio e da Pascoli, che formerà correnti culturali quali il futurismo e il crepuscolarismo.

    Nel presente articolo, si prendono in esame innanzitutto i tre saggi crociani sui rappresentanti del decadentismo italiano: Antonio Fogazzaro (1903), Gabriele d’Annunzio (1904) e Giovanni Pascoli (1907). Successivamente, in seguito a un’accurata analisi del saggio del 1907 Di un carattere della più recente letteratura italiana, si cerca di delineare il ribaltamento dell’atteggiamento crociano nei confronti dei

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研究ノート
  • 菅野 類
    2015 年 65 巻 p. 117-145
    発行日: 2015年
    公開日: 2017/03/27
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    Nel 1778 Alessandro Verri (1741-1816) scrisse due tragedie di carattere sperimentale: Pantea e La congiura di Milano, che il presente articolo si propone di analizzare in quanto pratiche di innovazione teatrale.

    È noto che nelle attività letterarie di Alessandro Verri è possibile distinguere due fasi diverse. La prima risale al periodo milanese in cui collaborava con il fratello maggiore Pietro per la redazione del periodico «Il Caffè» e fu presto interrotta per motivi intellettuali ed esistenziali. Solo dopo un lungo intervallo di oltre dieci anni si assiste alla ripresa dell’attività letteraria dell’autore nell’ambiente della Roma neoclassica. È a questo secondo periodo che risalgono Pantea e La congiura di Milano.

    Queste opere, sebbene finora poco studiate, sono particolarmente degne di attenzione per quanti nutrono interesse per la metamorfosi del gusto letterario nel Settecento: esse rappresentano infatti un’occasione preziosa per osservare minuziosamente il modo in cui un letterato del tempo si impegnasse per portare il proprio contributo alla rinascita culturale italiana.

    Secondo i fratelli Verri il teatro italiano mancava di forza espressiva e sentimentale. Neanche il teatro francese, per quanto da essi considerato superiore nel suo complesso, poteva essere riconosciuto come modello ideale a causa della tendenza stilistica ad enfatizzare l’interiorità dei personaggi. In questa prospettiva, Pantea e La congiura di Milano possono essere interpretati come il tentativo di superare e risolvere tali difficoltà.

    La Pantea, allo scopo di intensificare il pathos tragico, introduce due tecniche: la presenza quasi costante della protagonista sulla scena da una parte, e la semplificazione estrema della trama dall’altra. Semplificazione apportata allo scopo di escludere episodi che non contribuissero ad accrescere l’impegno, e l’interesse del punto principale, definito più esattamente in una continua agitazione di Pantea fra il timore e la speranza. Nella Congiura di Milano, invece, l’autore coglie la sfida di rappresentare con efficacia l’irragionevolezza del cuore umano, e individua la soluzione nella figura del tiranno debole, Galeazzo. L’apparente crudeltà e spregiudicatezza del personaggio crollano repentinamente davanti al veemente rimprovero della madre, ma il suo tormento interiore non viene espresso esplicitamente, come sarebbe successo nel teatro francese, ma viene percepito in modo piuttosto ambiguo. Oltre a ciò, la figura del tiranno inconsapevole della fonte del suo rimorso serve a mettere in rilievo l’orrore derivante dalle passioni.

    È opportuno ricordare qui il ruolo decisivo svolto da William Shakespeare nella formazione di tale drammaturgia. L’influenza del drammaturgo inglese sull’opera del Verri, sebbene non del tutto sorprendente, fu però il frutto di un gesto singolarmente audace e isolato nel contesto culturale italiano del Settecento, periodo in cui la maggior parte dei letterati non mostrava di tenere in grande considerazone lo stile shakespeariano, considerato troppo irregolare e imperfetto. La fredda reazione nei confronti dell’“ apostolo dello Shakespeare”, come fu definito Martin Sherlock, ne è un esempio eloquente. Viceversa, l’apprezzamento mostrato da Alessandro Verri per Shakespeare sembra confermare il carattere avanguardistico della sua produzione teatrale.

    La stessa logica può essere individuata anche nel rifiuto della giustizia poetica, elemento drammatico molto gradito al pubblico del Settecento. Quanto questa scelta fosse rischiosa è dimostrato anche dal disaccordo espresso da Pietro, che addirittura proponeva di cambiare la fine della Congiura di Milano, che non solo non premia l’eroicità dei protagonisti, ma, al contrario, moralmente la condanna. Ricordiamo qui che anche le tragedie di Alfieri provocheranno la stessa divergenza

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  • 向井 華奈子
    2015 年 65 巻 p. 147-166
    発行日: 2015年
    公開日: 2017/03/27
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    Nell’italiano contemporaneo, sia la forma della terza persona plurale del congiuntivo imperfetto sia quella del condizionale presente hanno desinenza in -ero. Ma fra la fine del Duecento e il Cinquecento questa regola non si era ancora stabilizzata, e coesistevano numerose varianti: la desinenza -ono (sarebbono, fossono), -eno (sarebbeno, fosseno), -oro (sarebboro, fossoro), ecc.

    Nel Cinquecento, questa oscillazione morfologica esercita una chiara influenza sugli scritti grammaticali: le forme della terza persona plurale del congiuntivo imperfetto e del condizionale presente teorizzate dagli scritti grammaticali cinquecenteschi sono infatti differenti da quelle contemporanee. Ad esempio Pietro Bembo (1470-1547), nelle sue Prose della volgar lingua (1525), propone come forma generale del modo condizionale la forma in -ono. Lo stesso Bembo, tuttavia, così come altri grammatici del Cinquecento, registra numerose varianti desinenziali del modo oggi denominato condizionale. Tenendo conto del fatto che il condizionale non esisteva in latino come modo morfologicamente distinto, e che quindi, a differenza di altri modi della lingua italiana, non ereditava dalle trattazioni antiche una forma o un modo d’uso predefinito, era inevitabile che nel Cinquecento, età della codificazione grammaticale, questa forma abbia rivestito un ruolo importante nella discussione grammaticale, dando adito a diverse interpretazioni.

    In questo articolo si intende analizzare la posizione tenuta su questa questione dai grammatici del Cinquecento, esaminando l’uso delle desinenze di condizionale e congiuntivo nelle principali opere letterarie scritte nel periodo compreso fra il XIII e il XVI secolo. Riguardo alle opere grammaticali cinquecentesche, si concentrerà l’attenzione in particolare su quattro nomi di particolare rilievo, ovvero Pietro Bembo, Giovan Francesco Fortunio (c. 1470-1517), Gian Giorgio Trissino (1478-1550) e Pierfrancesco Giambullari (1495-1555), che nell’ambito dei dibattiti cinquecenteschi sulla lingua si collocano in posizioni radicalmente diverse l’uno dall’altro. Le teorie di Bembo e Fortunio possono essere ascritte alla teoria classicista, che individuava il modello della lingua italiana nel fiorentino letterario del Trecento, e in particolar modo in Petrarca e Boccaccio, benché le teorie bembiane mostrino più rigore di quelle di Fortunio. La posizione di Trissino, conosciuta come teoria della lingua cortigiana o italiana, negava invece la superiorità del fiorentino e, rimarcando quanto in realtà una lingua illustre come quella elaborata da Dante e Petrarca fosse composta di voci provenienti da ogni parte d’Italia, non limitava le scelte lessicali e grammaticali della lingua letteraria moderna a specifiche regioni italiane. Anche per questa ragione, nella sua Grammatichetta (1529), Trissino, a differenza di altri teorici contemporanei, non fonda la propria teoria sull’autorità di scrittori illustri. Giambullari infine, nelle Regole della lingua fiorentina pubblicate nel 1552, propone come norma la lingua parlata a Firenze, pur usando nelle sue Regole abbondanti esempi tratti dalle Tre Corone.

    Le desinenze che esaminiamo sono descritte così:

    Per quanto riguarda il condizionale presente, tutti gli autori scelgono la desinenza -ono. Bembo non fa riferimento alla desinenza moderna -ero, che invece tutti gli altri grammatici indicano come desinenza del condizionale. In Bembo e Fortunio si discutono anche le forme -iano o -ieno, e a questo riguardo il primo traccia una netta distinzione tra le desinenze verbali che occorrono rispettivamente in poesia e in prosa. Per quanto riguarda invece il congiuntivo imperfetto, accanto a -ono, -eno, -ino, la prevalenza della desinenza -ero sembrerebbe suggerire che le desinenze -ono e -ero rappresentassero le forme principali per ambedue i modi.

    Su queste osservazioni di

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  • ─キリシタン美術とトレント公会議後のイタリアにおける聖像崇敬─
    児嶋 由枝
    2015 年 65 巻 p. 167-188
    発行日: 2015年
    公開日: 2017/03/27
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    電子付録

    Nel Museo dei Ventisei Martiri della città di Nagasaki si conserva un kakejiku (pittura su rotolo di carta) denominato Madonna della Neve, tramandato dai cristiani clandestini della zona di Sotome, in provincia di Nagasaki. Questo dipinto è stato attribuito a uno o più discepoli di Giovanni Cola, pittore e gesuita originario del Regno di Napoli e fondatore di una sorta di accademia di Belle Arti in Giappone. I discepoli di Cola, per rispondere all’incremento della richiesta di immagini sacre da parte dei cristiani giapponesi, riproducevano immagini di incisioni o di pitture portate dai missionari dall’Europa. Nelle epistole e nelle relazioni eseguite dai Gesuiti in Giappone si legge che i discepoli di Cola erano così bravi che anche gli occidentali facevano fatica a distinguere gli originali portati dall’Europa dalle copie eseguite in Giappone.

    Il nome autentico del gesuita-pittore, tuttavia, non risultava registrato con chiarezza, essendo indicato talvolta nei documenti e registri della Compagnia sotto varie forme, quali ad es. Niccolò, Nicolao, Nicolaus e Cola. Dalle ricerche eseguite sui documenti consultabili presso l’Archivio diocesano di Nola, sua città natale, risulta però che il nome esatto deve essere Cola. Sembra inoltre molto probabile che questi, prima del suo ingresso nella Società di Gesù, abbia lavorato a Napoli come apprendista presso la bottega di Giovanni Bernardo Lama, sempre di Nola.

    Sul titolo Madonna della Neve pesano poi diversi dubbi e a tale proposito sono state avanzate varie proposte, che sembrano concludere che il titolo originario sarebbe stato Immacolata Concezione oppure Madonna con Cristo dormiente. Tuttavia, alla luce delle analisi iconografiche, storiche e religiose, è ragionevole affermare che il titolo autentico sia stato effettivamente Madonna della Neve. Nel periodo della Riforma cattolica o Controriforma, infatti, la Chiesa tendeva ad esaltare le immagini taumaturgiche ereditate del periodo medioevale, quale ad es. l’icona denominata Salus populi romani di Santa Maria Maggiore a Roma e la Madonna della “Antigua” della Cattedrale di Siviglia.

    A questo si aggiunge il fatto che in Giappone permangono anche tracce, risalenti allo stesso periodo, che sembrano indicare la venerazione della Madonna della Neve. Per esempio, a Sotome, dove si trovava la Madonna della Neve attualmente conservata a Nagasaki, si tramandava tra i cristiani clandestini una storia miracolosa, giapponesizzata, che riguardava la Madonna della Neve. All’arrivo dei gesuiti nell’isola di Iki nel 1578, inoltre, la prima messa venne celebrata proprio il 5 agosto, ricorrenza della Madonna della Neve.

    Interessante è inoltre il confronto che mette in luce aspetti affini fra la Madonna di Nagasaki e una tavola raffigurante la Madonna col Bambino dell’altare maggiore della Chiesa Madre di Francofonte in provincia di Siracusa. La similitudine riguarda non l’aspetto stilistico ma quello compositivo e permette di evidenziare come anche le parti danneggiate del dipinto siano quasi uguali. La tavola di Francofonte, eseguita nel Quattrocento, venne venerata come Madonna della Neve solo dagli anni Settanta del XVI secolo a causa di un miracolo legato alla neve. È significativo il particolare della storia secondo il quale già allora la tavola aveva subito gli stessi danni visibili oggi. La copia di questa tavola doveva quindi imitare anche queste parti: nel periodo della Riforma, infatti, anche i danni presenti sulle immagini miracolose del Medioevo erano considerati importanti.

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