イタリア学会誌
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68 巻
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論文
  • 村瀬 有司
    2018 年 68 巻 p. 1-23
    発行日: 2018年
    公開日: 2019/11/29
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    L’introduzione del discorso diretto eseguita da Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata contempla elementi quali “lui disse”, “rispose”, “grida”, e così via. In linea generale, questi precedono direttamente il discorso diretto e vengono talvolta inseriti nella frase riportata, mentre solo di rado risultano collocate alla fine di essa o omesse. Per quanto riguarda il primo caso, si possono osservare due modalità: l’inizio del discorso diretto a metà verso ponendo l’espressione di reporting all’inizio, oppure la collocazione dell’elemento di reporting in uno dei versi precedenti e un discorso diretto che comincia all’inizio del verso. A titolo di esempio si presentano di seguito i tre tipi principali attraverso le sigle (I) (P) e (M) e sottolineando l’elemento di reporting:

     

    (I): Al re gridò: «Non è, non è già rea costei del furto, e per follia se ’n vanta. (Gerusalemme liberata, II, 28, 1-2)

    (P) Il capitan rivolse gli occhi in giro tre volte e quattro, e mirò in fronte i suoi, e poi nel volto di colui gli affisse ch’attendea la risposta, e così disse: «Messaggier, dolcemente a noi sponesti ora cortese, or minaccioso invito. (II, 80,5-81,2)

    (M) «Credasi» dice «ad ambo; e quella e questi vinca, e la palma sia qual si conviene.» (II, 32, 3-4)

     

    Il presente lavoro si concentra sull’analisi del tipo (P) che rivestono nella Gerusalemme liberata ruoli particolari, analizzando due caratteristiche formali: la relativa lunghezza dell’elemento di reporting (normalmente accompagnata da vari elementi grammaticali: parole qualificative, gerundi, proposizioni, frasi semplici, ecc., come mostra parzialmente il passo citato) e l’altra è l’intervallo esistente fra la fine del verso dopo l’espressione di reporting e l’inizio del discorso diretto nel verso seguente. Da questa analisi è possibile ottenere risultati interessanti.

    Lo studio muove dal confronto dei dati statistici della Gerusalemme liberata, dell’Inamoramento de Orlando e dell’Orlando furioso e ne indica l’incidenza relativamente alta del tipo (P) nel poema tassiano. Attraverso questi dati, inoltre, è possibile chiarire che i discorsi diretti introdotti da questa tipologia tendono ad essere lunghi e collocati lungo il quadro della stanza.

    Vengono poi considerate la costruzione e la lunghezza dell’espressione di reporting del tipo (P) e le si confrontano con gli altri due tipi presenti nella Gerusalemme liberata, mettendone in chiaro il ruolo nella rappresentazione dei personaggi che si accingono a parlare, dando maggior peso ed effetto a quelle parole.

    L’effetto che viene a crearsi grazie all’intervallo fra elemento di reporting e discorso diretto è il tema del proseguimento dell’analisi. La pausa che precede l’inizio del discorso diretto accresce le aspettative del lettore, in particolare quando esso muove dal principio della stanza. In questo modo, si procede mostrando come tali aspettative siano talvolta rafforzate da elementi frequenti nelle espressioni di reporting del tipo (P) quali così e tale, dotate di funzione cataforica.

    Nell’ultima parte si esamina la gravità e la stabilità della disposizione dei discorsi diretti del tipo (P), richiamando l’attenzione sui due personaggi che li utilizzano più frequentemente: Goffredo e Piero l’Eremita.

    Tutto ciò, a nostro avviso, evidenzia la funzione, alla quale nelle ricerche presentate fino ad oggi non era stata attribuita adeguata importanza, svolta dal discorso diretto del tipo (P) nella Gerusalemme liberata.

  • ─息子ステファノが自分の個人的な思いを埋め込んだ箇所はどこか?─
    斎藤 泰弘
    2018 年 68 巻 p. 25-50
    発行日: 2018年
    公開日: 2019/11/29
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    L’articolo Non parlo di me di Luigi Pirandello vede la luce nel numero di gennaio-marzo del 1933 dell’Occidente e utilizza il testo di una conferenza tenuta ad Alessandria d’Egitto nel dicembre del 1932. Saggi, Poesie, Scritti vari (1977, 4a ed. riveduta, cur. Manlio Lo Vecchio-Musti), tuttavia, non lo riporta se non con una nota in calce che lo annovera fra gli apocrifi: «apparsi […] valendosi della collaborazione di taluno» a cui Pirandello sembra aver fornito «traccia e sommarie indicazioni», e «taluno» sembra dunque indicare Stefano, figlio di Luigi Pirandello.

    La nuova edizione di Saggi e Interventi (2006, cur. Ferdinando Taviani) accoglie invece anche gli scritti non autentici in quanto «frutto d’una collaborazione fra Luigi Pirandello e il suo figlio scrittore», giustificando questa scelta come una «scrittura che non era a quattro mani, ma a due teste, mediata o a specchio» dalla quale sarebbero scaturite «le pagine critiche e saggistiche a nostro parere più acute e personali» pirandelliane. Un esempio ne è l’articolo Non parlo di me, al centro di questo studio.

    In quel testo, il presente lavoro mostra come due elementi appaiano con chiarezza: da una parte l’obbedienza ossequiosa e l’amore filiale di Stefano verso il padre, che non esclude, dall’altra, una sorda ostilità verso la grandezza del padre stesso. In breve, il testo lascia filtrare le tracce della profonda e inquietante ambivalenza di Stefano nei confronti del padre Luigi.

    Un esempio del rispetto che Stefano nutre verso il padre traspare in un commovente ricordo d’infanzia dell’artista che si trova nel testo: «Per giungere dove giungerà gli è necessaria una scuola di vita. […] Buona fede, credulità e rispetto assolutamente necessari per accumulare amari disinganni, crudeli delusioni, feroci colpi […], e l’educazione dello spirito, compiuta così a proprie spese, serve a farlo crescere […] e a lasciarlo, com’è giusto che sia un artista, inadatto alla vita». Questo ricordo appartiene indubbiamente all’infanzia di Luigi e non sembra essere stato filtrato dall’esperienza del figlio Stefano. Altro fattore che sembra avvalorare questa ipotesi è il fatto che Pirandello narrerà lo stesso ricordo due anni dopo, riutilizzando esattamente le stesse parole nel discorso al banchetto per il Premio Nobel. È evidente che qualora fosse il padre ad essersi appropriato di un ricordo personale del figlio, ci troveremmo di fronte a un plagio.

    L’ostilità del figlio sembra invece rintracciabile in un brano che illustra la trappola in cui può cadere l’artista se si autocompiace della propria fama. Rimproverando l’autocompiacimento, il narratore (certo non difficile da identificare) accusa con accanimento l’artista di fama (altrettanto chiaramente identificabile). Davanti ai severi rimproveri di aver «buttato a mare come zavorra il grosso peso» per navigare col cuore sereno, l’accusato è costretto a discolparsi: «Non abbiamo buttato a mare nulla: abbiamo, ecco, situato quel peso nella stiva, nel miglior modo possibile. E poi ce ne siamo dimenticati, o meglio, abbiamo fatto di tutto per potercene dimenticare. Ci siamo distratti: i piccoli incidenti di navigazione, gli spettacoli da ammirare sono divenuti l’oggetto principale della nostra attenzione».

    L’accusato sceglie di articolare la propria difesa con immagini metaforiche che richiamano il viaggio per mare: «buttare a mare il peso», «i piccoli incidenti di navigazione», «gli spettacoli da ammirare». Secondo la nostra interpretazione, la prima metafora sembra alludere all’internamento della moglie Antonietta in un ospedale psichiatrico; la seconda ricorda allo choc subito dai figli nel momento in cui il padre si innamora della giovane attrice Marta Abba; l’ultima sottende infine l’attività teatrale di Luigi che lo ha portato a trascurare la famiglia.

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  • 山﨑 彩
    2018 年 68 巻 p. 51-72
    発行日: 2018年
    公開日: 2019/11/29
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    Questo lavoro mira ad isolare e definire una caratteristica generale dei romanzi di Claudio Magris, attraverso l’analisi dei fatti, che siano storici o meno, intersecantisi nei romanzi, evidenziando in questo modo il significato che l’Autore attribuisce alla scrittura.

    Verità o invenzione? Musarra Schrøder sostiene che i romanzi magrisiani sfumano il confine fra l’una e l’altra, lasciandolo incerto e nebuloso. Attraverso l’espediente di un narratore che “trascrive” quanto raccontato in precedenza da un altro narratore, il romanzo di Magris risulta composto da una galleria di racconti, o meglio “testimonianze” - spesso sospette - incastrate in un racconto a cornice. Le testimonianze sono riportate da un personaggio-narratore, chiamato “filologo” o “critico letterario”, che assume il ruolo di detective della storia in un’indagine che “conduce a un cassetto, a una biblioteca, al segreto d’una vita” (Danubio, 343). Sua missione è combinare gli indizi raccolti e riportare alla luce un passato perduto. Si rende però necessaria la consapevolezza del lettore che il “filologo”, al centro del racconto-cornice, ricostruisce gli eventi in modo arbitrario: pertanto alla scoperta di eventi sottratti alle tenebre dell’oblio deve affiancarsi la capacità di dubitare del racconto stesso.

    Il “filologo” magrisiano ricostruisce fatti storici spesso legati alla Seconda guerra mondiale, cancellati per qualche motivo contingente dalla memoria collettiva, “passati” che non rientrano nella macro-storia ufficiale, micro-storie marginali, se non frammenti di storie appartenenti a persone che non hanno lasciato tracce della loro esistenza o che hanno perso la vita senza lasciare niente di sé, esprimendo l’istanza di ricostruire queste micro-storie come una sorta di resistenza contro l’oblio. Il “filologo” diventa così “un piccolo guerrigliero contro l’oblio” («Danubio» e post- «Danubio», 25). Per quanto il recupero di micro-storie non apporti dati sufficienti a modificare il flusso o la percezione della macro-storia, la Storia ufficiale, permette di scoprire, accanto ad essa, tante piccole storie marginali e non ufficiali. L’attività del “filologo”, come in azioni da guerriglia, fa vacillare le assolute certezze della Storia ufficiale.

    Il “filologo” ricopre inoltre il ruolo di correggere i falsi miti nati dalla distorsione dei fatti: Magris romanziere comincia dalla constatazione della verità fattuale, il “filologo” svela la fallacia del mito e ricostruisce gli eventi in modo più verosimile sulla base dei dati, dando però al contempo conto della falsificazione e dimostrando che il mito risponde in origine alle esigenze contingenti di coloro che lo hanno creato. Magris, nei romanzi, non offre solo molteplici verità sulla falsificazione, ma presenta anche una “verità poetica”, un tentativo di spiegare le cause degli avvenimenti, inoltrandosi così in territori ambigui e oscuri dove i fatti non sono più verificabili.

    Si è voluto fin qui chiarire come i romanzi magrisiani problematizzino la scrittura del passato: permettono infatti di individuare i commenti dell’Autore sul “raccontare i fatti del passato”, lasciando intravedere come qualsiasi passato raccontato sia una mera “trascrizione”, una “fotocopia”, vale a dire un “falso”, e come a ciò non si sottraggano neanche le storie riportate dal “filologo”. L’atto stesso di attribuire a uno o più fatti una forma scritta genera una ricostruzione, che è un’interpretazione, ma anche un allontanamento dal fatto in sé. Questa definizione, pur in apparente contraddizione con l’attività del “filologo”, che ricostruisce faticosamente il passato, lascia trasparire con chiarezza l’approccio magrisiano alla scrittura. In Utopia e disincanto (1996), Magris dichiara che l’Utopia deve sempre accompagnarsi al disincanto, alla consapevolezza che l’Utopia non

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  • ─古イタリア語の小節構造─
    上野 貴史
    2018 年 68 巻 p. 73-94
    発行日: 2018年
    公開日: 2019/11/29
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    In italiano moderno, il complemento indefinito dei verbi inaccusativi, come si può verificare dai seguenti esempi, mostra l’alternanza del complementatore:

     

    i) Non mi importa andare in giro.

    ii) Non mi importa di andare in giro.

     

    Il complementatore di i) è φ (φ-Inf ), mentre quello di ii) è di (di-Inf).

    In Ueno (2015) è stato svolto un esame quantitativo di tale alternanza nei corpus a proposito del verbo importare ed è stata verificata una proporzione del 58.1% per φ-Inf e del 41.9% per di-Inf.

    Mentre i due complementi vengono usati con il verbo importare in percentuali pressoché uguali, si nota invece che i verbi bisognare, interessare, e piacere selezionano soltanto φ-Inf, mentre i verbi avvenire, capitare e succedere mostrano solo di-Inf.

    In base all’ipotesi che il complemento frasale in italiano antico fosse la struttura della Frase Ridotta, questo articolo mira ad illustrare in che modo, in senso diacronico, il fenomeno dell’alteranza e quello della convergenza siano venuti a configurarsi in italiano moderno.

研究ノート
  • ─作品読解における指針にかんする提案─
    横田 太郎
    2018 年 68 巻 p. 95-113
    発行日: 2018年
    公開日: 2019/11/29
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    L’interpretazione e la valutazione del De commodis litterarum atque incommodis di Leon Battista Alberti dipendono quasi esclusivamente dalla datazione dell’opera presupposta dal riferimento ambiguo presente nella Leonis Baptistae de Albertis vita e dalla congettura proposta da Girolamo Mancini. Il De commodis, tradizionalmente datato al 1428-1429, è comunemente interpretato come considerazione stoica sugli studi e gli studiosi e rifletterebbe il pensiero giovanile di Alberti, che in giovinezza ha conosciuto le sfortunate vicende suggerite dai riferimenti autobiografici, rintracciabili in opere come la Vita e altre operette raccolte fra le Intercenales. Tuttavia, accettando la proposta di spostamento della datazione del De commodis a dopo il gennaio 1432, come proposto da Luca Boschetto, e facendo attenzione ad alcuni elementi provocatori nell’opera stessa, non sarà possibile ignorare la necessità di reinterpretarla nella sua interezza e riconsiderarne la funzione mettendola a confronto con quello che era il pensiero dominante, l’umanesimo civile, nel quadro del mondo accademico fiorentino.

    Nella prima metà degli anni Trenta del Quattrocento, a cui potrebbe risalire la stesura del De commodis, Battista, aiutato da qualche potente membro della famiglia, ha già acquisito una condizione socio-economica consolidata e indipendente nonostante l’illegittimità della sua nascita: a lui è stato concesso il beneficio della prioria di San Martino a Gangalandi, ed è stato impiegato come secretarius di Biagio Molin, patriarca di Grado e reggente della cancelleria ponteficia, nonché nella Curia in titolo di litterarum apostolicarum abbreviator. Questi privilegi sembrano dimostrare l’elevato stato sociale di cui godeva Battista, membro della celebre famiglia Alberta.

    L’incoerenza tra la figura dell’Alberti reale e quella dello studente sfortunato dei riferimenti autobiografici sembra mettere in dubbio la sincerità dell’autore che nel De commodis raffigura, come studioso “ideale”, il litteratus forzato ad abbandonare tutti i beni mondani. L’attività letteraria dell’Alberti assume infatti in questo periodo un certo tono di sfida, scettico verso il mondo accademico fiorentino capeggiato da chi viene definito hac etate litterarum princeps: Leonardo Bruni. Attraverso le polemiche dottrinali iniziate con il proemio al terzo libro della Famiglia e concluse con la Protesta e due proemi alle Intercenales, l’Alberti si rivolge con aggressività agli studiosi appartenenti alla generazione precedente, soprattutto al Bruni, senza dissimulare la propria frustrazione rispetto all’elitismo intellettuale che caratterizza il pensiero degli umanisti più anziani. Pertanto, anche il De commodis, nella cui dedica l’Alberti contrappone gli studiosi giovani agli umanisti dell’età precedente, manifestando una certa antipatia nei loro confronti, dovrebbe collocarsi all’interno delle polemiche dottrinali colorite dal tono ironico e provocatorio.

    Alcune ricerche recenti, inoltre, hanno ampliato la portata dell’indagine sul De commodis considerandolo una satira della figura del litteratus tanto stoico e ingenuo da esser detestato ed escluso completamente dalla società, e mettendo in evidenza le allusioni motteggianti agli umanisti più anziani, Bruni incluso. L’opera insomma, potrebbe svolgere il ruolo di ulteriore manifestazione satirica dell’antipatia nutrita dall’Autore verso il mondo accademico fiorentino dominato dal Bruni. Anche questi caratteri provocatori tipici dell’intero pensiero dell’Alberti, critico dell’umanesimo civile, richiederebbero un confronto immediato e preciso del De commodis con il pensiero degli umanisti delle generazioni precedenti che elogiano la partecipazione degli studiosi alla vita attiva e si vantano dei contributi da loro portati al bene pubblico attraverso la dottrina.

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  • 菅野 類
    2018 年 68 巻 p. 115-145
    発行日: 2018年
    公開日: 2019/11/29
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    Secondo Alessandro Verri (1741-1816) il processo creativo della Congiura di Milano era basato sul tentativo di “seguire la storica verità”. Per quanto alcuni critici abbiano già messo in evidenza il valore storico di questo approccio quale anticipazione del Romanticismo, si ritiene che l’intento innovativo dell’autore, soprattutto a livello tecnico, non abbia ancora ricevuto adeguata attenzione. Scopo di questo lavoro è dunque mettere in relazione l’innovatività verriana con la drammaturgia dell’epoca analizzandone le trasgressioni teatrali.

    La storicità o veridicità, fin dalla Poetica aristotelica, aveva sempre rappresentato un elemento fondante del genere tragico, impostazione questa che era andata acquistando sempre maggior peso anche grazie al lavoro del cinquecentesco postillatore del testo aristotelico Lodovico Castelvetro (1505-1571). Intorno alla metà del Settecento, fu possibile però individuare una nuova fase: in questo periodo, infatti, stavano emergendo come requisiti della tragedia nuovi elementi, quali la distinzione della storia dal mito e la richiesta di soggetti legati alla storia nazionale. Lo storicismo verriano sembra così essere inteso come risposta al mutato clima culturale e alla crescente enfasi che veniva gradualmente ponendosi sulla dimensione storica.

    Allo scopo di comprendere al meglio l’approccio verriano è opportuno considerare la sua formazione di storico. La storiografia, infatti, rientrava, all’interno del contesto illuminista, tra i principali ambiti di studio assegnati al Verri dal fratello Pietro (1728-1797) durante il periodo milanese (1764-1766). Lo sforzo di ricostruzione del passato trovò in seguito compimento nel Saggio sulla Storia d’Italia, che, seppure non pubblicato, rivela le ambizioni storiografiche dell’autore. La rimozione della soggettività e la leggibilità del testo, evidenti nel progetto, ne costituiscono le colonne portanti, implicando da una parte il rifiuto dello stile “poetico” e la presa di distanza dall’arbitrio interpretativo e l’uso delle citazioni, e inducendo, dall’altra, il rifiuto dello stile annalistico e l’equilibrata scelta del materiale. In questo contesto, nel presente studio si propone che tali caratteri anticipino la storicità della Congiura.

    In primo luogo, fra i tentativi di “seguire la storica verità”, si dovrebbe annoverare l’aspetto stilistico, che l’Autore stesso, nella Prefazione, definisce “abbassare il Coturno”. Questo accorgimento, lungi dall’essere un semplice artificio retorico, mira piuttosto a “seguire la natura del costume che descriv[e] secondo la storia”. Il Galeazzo Maria Sforza della Congiura appare essere infatti un tiranno crudele e affabile, il cui tono ironico e ilare nei confronti dei sudditi contribuisce a veicolarne la complessità interiore. La tradizionale rappresentazione della drammaturgia classicistica richiedeva caratteri stereotipati, e il condizionamento del discorso teatrale era contraddistinto dalla schematicità, spesso a scapito della veridicità. La scelta verriana, opponendosi a tali canoni convenzionali, si manifesta in una rappresentazione di Galeazzo che non era frutto dell’immaginazione dell’Autore, ma una fedele ricostruzione storica basata sui documenti coevi. Questo elemento svela il momento importante in cui il principio dello storicismo supera i confini del classicimo.

    Gli “agganci storici” aggiunti nei paratesti evidenziano uno stile che accomuna l’approccio verriano a quello romantico e rappresentano una strategia volta ad enfatizzare la storicità della tragedia, per quanto già nel Settecento non fossero mancati esempi analoghi. Autori come Antonio Conti (1677-1749) e Alfonso Varano (1705-1788), per esempio, avevano premesso alle loro opere lunghe prefazioni che discutevano l’analisi storica dell’argomento, distinguendo le parti poetiche da

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  • 石井 元章
    2018 年 68 巻 p. 147-167
    発行日: 2018年
    公開日: 2019/11/29
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    Famoso militare e politico, Ettore Viola (1894-1986), noto per la celebre mostra d’arte giapponese al Palazzo delle Esposizioni a Roma nel 1930, viene presentato da nuovi documenti anche come organizzatore della prima mostra d’arte italiana moderna tenutasi a Tokyo nel 1928. Il presente lavoro esamina questo aspetto delle attività di Viola, mettendo in evidenza la graduale modifica ed appropriazione del progetto della mostra d’arte giapponese a Roma da parte della propaganda fascista, fino ad escludere totalmente Viola dal progetto e dall’evento.

    In una posizione rischiosa dopo il voto contrario al partito fascista alla camera, Viola si reca in Cile con un passaporto ottenuto con difficoltà, portando con sé, anche su suggerimento del prof. Carlo Siviero (già direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli), più di 250 quadri di artisti contemporanei romani, napoletani, fiorentini, milanesi e veneziani, che glieli avevano affidati sulla fiducia, rimandandone il pagamento. Qui Viola realizza un’esposizione di discreto successo, ma la vendita dei quadri riesce appena a coprire le spese di viaggio. Si sposta così a San Francisco, negli Stati Uniti, dove il console italiano gli suggerisce di recarsi in Giappone. Vi giunge il 31 marzo 1928 e organizza, con il sostegno dall’incaricato d’affari dell’Ambasciata del Regno d’Italia a Tokyo Leone Weillschott, un’altra mostra nei grandi magazzini Mitsukoshi dal 9 al 15 maggio. Questa mostra riscosse un grande successo e quasi tutte le opere esposte furono vendute.

    Tutti i giornali locali, tuttavia, riferiscono che l’ideazione e l’organizzazione della mostra si dovevano al governo italiano: notizia non corretta e di origine ignota, per quanto anche il diario di Naohiko Masaki, direttore della Scuola di Belle Arti di Tokyo, nomini Viola solo come rappresentante del governo Mussolini. È possibile che la notizia sia stata diffusa proprio da Weillschott su pressione del governo italiano. La figura del Duce, è noto, negli anni Venti era particolarmente apprezzata in Giappone e molte opere a lui favorevoli furono pubblicate o rappresentate sul palcoscenico. A una di queste rappresentazioni in un teatro di Tokyo assistette con Masaki lo stesso Viola.

    La mostra fu visitata anche da membri della famiglia imperiale e uno di essi, il Principe Asaka, la cui residenza ospita ora il Museo del Giardino (Teien) a Tokyo, acquistò La gondola nuziale di Alessandro Milesi (1856-1945) e Gli usi e costumi del Settecento di Raffaele Zeloni (XIX-XX sec.). Viola, inoltre, regalò all’Ambasciata d’Italia a Tokyo l’Ufficiale di artiglieria a cavallo di Giovanni Fattori, conosciuto come Il carabiniere a cavallo. Poche altre opere oltre a queste sono però identificabili attraverso i documenti a noi pervenuti: Ritratto di donna alla turca di Filippo Carcano (1840-1914), La barca alla costa di Giuseppe Casciaro (1863-1941), Nella palude a Monte Circeo di Giulio Aristide Sartorio (1860-1932), Un campo di Venezia di Giacomo Favretto (1852-1887) e Una giovane al pianoforte di John Singer Sargent (1856-1925).

    Lo scambio epistolare iniziato fra Viola e Weillschott una volta lasciata Tokyo, mostra che l’incaricato informa Viola dell’impressione che ha avuto del nuovo Ambasciatore Pompeo Aloisi (1875-1949). Questi aveva accolto con entusiasmo l’idea di una mostra di arte giapponese a Roma proposta da Viola, Weillschot e Terasaki (interprete, studente di pittura all’Istituto di Belle Arti di Venezia all’inizio del secolo). Con una lettera del 31 luglio 1928, Weillschott chiede a Viola di ospitare a Roma a proprie spese il barone Okura, che voleva sponsorizzare la mostra del 1930 e nel cui albergo nel centro di Tokyo Viola era stato ospitato per più di un mese.

    Lo scambio epistolare diretto fra Aloisi e Viola risale invece al febbraio 1929: qui si mostra

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