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クエリ検索: "フィリッポ・トンマーゾ・マリネッティ"
8件中 1-8の結果を表示しています
  • ──岡下一郎と稲垣足穂の〈機械〉表象──
    高木 彬
    横光利一研究
    2017年 2017 巻 15 号 73-90
    発行日: 2017年
    公開日: 2022/03/27
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  • ペルショウ アンリ, 目形 照
    イタリア学会誌
    1964年 12 巻 47-56
    発行日: 1964/01/20
    公開日: 2017/04/05
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  • 河野 真太郎
    ヴァージニア・ウルフ研究
    2009年 26 巻 55-74
    発行日: 2009/10/30
    公開日: 2017/07/08
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  • ─〈ピノッキアーテ〉と視覚文化─
    石田 聖子
    イタリア学会誌
    2019年 69 巻 1-21
    発行日: 2019年
    公開日: 2021/01/23
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    La figura di Pinocchio, nei suoi oltre 130 anni di vita, è stata declinata in più ambiti culturali fino a diventare un’icona contemporanea. L’intensità di questa proliferazione ha in qualche modo rinnovato gli schemi culturali, lanciando, di fatto, un nuovo genere multimediale denominato Pinocchiate, produzioni nate in campi diversi, ma sempre ispirate alla storia del burattino; esempi di genere moderno dotato di caratteri eterogenei, elemento del resto riscontrabile nello stesso Pinocchio.

    L’eterogeneità del corpo è una caratteristica della cultura visuale che si manifesta esprimendosi attraverso il suo medium per eccellenza: il cinema. Ci si propone qui di esaminare l’eterogeneità del corpo di Pinocchio quale punto di partenza del fenomeno delle Pinocchiate muovendo dall’indagine della corporeità del burattino attraverso le sue rappresentazioni sia ne Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi che nel film Pinocchio (1911), prima trasposizione cinematografica del romanzo.

    Pinocchio è un corpo eterogeneo simile ad altri apparsi intorno agli inizi del Novecento, come Centauro richiamato da Filippo Tommaso Marinetti in Fondazione e Manifesto del Futurismo (1909) o Perelà, uomo di fumo ne Il Codice di Perelà (1911) di Aldo Palazzeschi, entrambi immaginati come corpi nuovi che superano il corpo umano, carnale e dunque limitato. Pinocchio, burattino di legno, non si distingue solo per l’estrema agilità dei movimenti, ma è dotato anche di emozioni e intelligenza, seppur nella propria materia lignea. La novità del corpo è insita in tale struttura multistrato, «struttura di compromesso», come la definisce Asor Rosa: caratteristica che consente al burattino di trasformarsi da semplice pezzo di legno in burattino, da burattino in asino e infine in bambino vero. Pinocchio dà forma così a un’unità in movimento pervasa da una continua tensione dinamica, giungendo a rappresentare nella propria storia la metamorfosi tipica dell’età contemporanea. Una metamorfosi che non si limita al romanzo, ma si ripercuote anche al di fuori di esso.

    Per quanto protagonista di uno dei libri più tradotti al mondo, la popolarità del personaggio Pinocchio non è esclusivamente condizionata dal romanzo originale: l’immaginario generale legato a questa figura nasce anche da altre versioni derivate a posteriori, le cosiddette Pinocchiate, produzioni ispirate al burattino che si sono diffuse in più ambiti: tra questi la letteratura, i fumetti, il teatro e il cinema. Le Pinocchiate si originano nella difficoltà di rappresentare il corpo plurivalente: questa è la chiave della problematicità che induce variazioni nella modalità di rappresentazione del burattino, intorno al quale l’immaginazione continua a svilupparsi. Non è l’inconfondibile corpo di legno che identifica Pinocchio per il suo aspetto, ma piuttosto la sua immagine: corpo aperto a ogni interpretazione e in continua trasformazione a seconda degli occhi di chi lo guarda.

    Pinocchio, corpo composto di una materia insolita, s’incarna oscillando con aspetto labile tra il reale e l’irreale. Proprio nel periodo in cui Collodi concepiva il suo personaggio, si andava ultimando l’apparecchio capace di riprodurre corpi altrettanto evocativi in una nuova arte: il cinema. Il corpo cinematografico è fatto di luce, materia anormale, ma che appare come realtà. In questo caso tale caratteristica è intrinseca alla struttura dell’apparecchio stesso: il cinema è infatti realizzato grazie alla congiunzione di due principali tecniche: una che tende a riprodurre la realtà (come la fotografia) e l’altra che produce illusione (come il fenachistoscopio). Non è quindi altro che uno strumento che riproduce la realtà attraverso l’illusione e la sua contraddizione è connaturata alle sue immagini.

    Il corpo di Pinocchio e il corpo cinematografico,

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  • 太田 岳人
    イタリア学会誌
    2016年 66 巻 1-20
    発行日: 2016年
    公開日: 2017/12/09
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    Le macchine di Munari, pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1942, è uno dei primi “libri per i bambini” di Bruno Munari (1907-1998). La caratteristica comune delle macchine inserite in questo albo è di essere costituite da meccanismi eccentrici e immaginari, che, non presentando alcuna utilità o praticità, invitano il lettore al sorriso. In realtà, già prima della pubblicazione dell’opera, l’artista aveva presentato alcune versioni delle macchine, in particolare in forma di vignetta, nel giornale umoristico settimanale Settebello (1933-1941), dal 1938 al 1939.

    Come ammesso da Munari stesso, l’immagine delle sue macchine si ispirava al disegnatore, o, per essere precisi, “vignettista” umoristico statunitense Rube Goldberg (1893-1970), conosciuto come inventore della Rube Goldberg machine. La machine di Goldberg era infatti composta da un complesso meccanismo basato su una reazione a catena, ma in grado di fare soltanto una cosa banale e semplicissima. Dal 1912 il vignettista statunitense aveva cominciato a illustrare la serie di machine per la stampa, e la sua attività aveva suscitato l’attenzione di una parte del campo artistico del suo Paese (per es. di Marcel Duchamp e del Museum of Modern Art di New York). Certo nell’albo di Munari è possibile trovare indizi della conoscenza della Rube Goldberg machine, ma le macchine munariane contengono anche elementi che ne indicano l’originalità. In primo luogo la decisa negazione dell’utilitarismo della macchina in termini generali e il mancato utilizzo nell’illustrazione della macchina della reazione a catena, cioè l’elemento più caratterizzante della Goldberg machine. In altre parole, il “nonsense” delle macchine munariane appare sottolineata in modo più drastico.

    Pur non dichiarando esplicitamente modi e tempi della conoscenza del lavoro di Goldberg, Munari aveva già presentato un prototipo di Macchine almeno in una pagina della rivista annuale non umoristica Almanacco letterario Bompiani del 1933.

    Dal 1927 al 1937, Munari, seppure partecipe del movimento futurista italiano, non fu in grado di dedicarsi alla pura arte e, per guadagnarsi da vivere, dovette fare molte esperienze nel campo dell’editoria come vignettista o illustratore. A Milano, infatti, dove egli si trovava, stavano crescendo rapidamente alcuni grandi imprese editoriali come Bompiani o Mondadori.

    Negli anni Trenta, intanto, fiorivano alcuni nuovi e popolarissimi giornali umoristici come Marc’Aurelio (1931-1958) o Bertoldo (1936-1943). La repressione esercitata sui giornali umoristici antifascisti negli anni Venti aveva vietato le vignette satiriche a tema generalmente politico e in questo clima gli umoristi professionisti, quando non favorevoli al regime, sottoposti alla censura e alla guida amministrativa, si trovavano a disegnare vignette che, attaccando Paesi stranieri come Francia, Inghilterra e Unione Sovietica, li dipingevano come nemici. Sotto questo aspetto, il concetto umoristico delle Macchine create da Munari non era si poneva in contrasto con il regime, ma piuttosto era neutrale rispetto alla linea politica.

    La collaborazione di Munari al Settebello fu favorita da un abile dirigente della testata: Cesare Zavattini (1902-1989), uno dei grandi sceneggiatori del cinema neorealista dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questi, lavorando durante gli anni Trenta per varie case editrici milanesi in qualità di redattore e correttore di bozze, aveva incontrato Munari nella redazione dell’Almanacco letterario Bompiani. In quel periodo Zavattini era incaricato del progetto del Bertoldo per la Rizzoli, ma venne assunto dalla Mondadori per occuparsi della direzione di vari periodici dal 1936 in poi. Nel 1938, quando gli venne affidato l’incarico di caporedattore del Settebello, Zavattini chiamò Munari fra i giovani vignettisti e questo

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  • 仲野 康則, 小林 克弘, 三田村 哲哉
    日本建築学会計画系論文集
    2009年 74 巻 645 号 2563-2569
    発行日: 2009/11/30
    公開日: 2010/04/01
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    The purpose of this paper is to make an analysis of Le Corbusier's architectural thought and the works in 1920's focusing on the folklore. Le Corbusier had a relation with the progressive avant-garde from the beginning in 20's, and he participated in avant-garde movement, but his architectural thought has the characteristic that is incompatible with the avant-garde, and the architectural works of his 1930's are explained in a concept such as regionalism and the vernacular. It was made clear that this characteristic tendency of the works of his 1930's is also seen in the works of his 1920's, by an analysis of his works based on his work explanation.
  • ─20世紀初頭までのイタリア写真の状況─
    角田 かるあ
    イタリア学会誌
    2021年 71 巻 133-159
    発行日: 2021年
    公開日: 2021/11/16
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    Movimento artistico d’avanguardia diffusosi in tutto il mondo attraverso il manifesto Fondazione e Manifesto del Futurismo pubblicato nel 1909, voltava le spalle al passato e rifiutava la tradizione, glorificando la bellezza delle macchine, della velocità e del dinamismo che ben si adattavano allo spirito del nuovo secolo. La sua sfera d’azione venne ampliata ad ogni espressione artistica purché ne condividesse lo spirito, caratterizzandone la natura interdisciplinare, ma in questo quadro il fotodinamismo rappresentò un’eccezione a cui non venne concesso alcuno spazio.

    Inventato nel 1911 dai fratelli Bragaglia, Anton Giulio (1890-1960) e Arturo (1893-1962), per i pittori del primo futurismo esso non meritava alcuna collocazione all’interno del movimento: pittori come Umberto Boccioni, che miravano a riprodurre sulla tela “il dinamismo del mondo come sensazione dinamica”, percepivano nella fotografia un congelamento della sensazione del movimento sulla pellicola e ciò ne escludeva il riconoscimento come forma d’arte.

    Un esame della letteratura manifesta la problematicità della macchina fotografica per i pittori futuristi: la fotografia non poteva infatti che immortalare la realtà in maniera veritiera, imprimendola in un eterno istante a cui ogni forma di dinamismo era negata e ciò ne limitava la portata ai soli scopi pratici. In questo lavoro si avanza l’ipotesi che questa non sia stata l’unica causa dell’esclusione, individuando i motivi della messa al bando anche nei pregiudizi negativi di cui la fotografia era gravata e nel loro persistere nel contesto culturale italiano. Tali pregiudizi derivavano dai suoi due principali contesti di impiego: il primo, “commerciale”, documentava rovine storiche e monumenti di interesse culturale, il secondo, la fotografia artistica, era caratterizzato dalla ricerca dell’evasione dalla realtà, o escapismo, nella riproduzione di scene idilliche dallo stile classico.

    In primo luogo si esegue un’analisi dei quattro generi esaminati ad oggi dalla letteratura accademica per determinare le caratteristiche preponderanti della fotografia italiana dell’epoca: “fotografia di viaggio”, “fotografia architettonica”, “fotografia artistica”, “fotografi amatoriali”. Si procede poi ad esaminarne gli aspetti più evidenti, quello legato alla fruizione dei beni culturali e l’escapismo, approfondendo il pensiero dei pittori futuristi e confrontando i principi dei manifesti futuristi con l’essenza della fotografia storica ed escapista. Questo esame comparativo delle fonti suggerisce in primo luogo che la fotografia del patrimonio culturale, legata all’ambito commerciale, limitandosi a ritrarre soggetti di un passato remoto che i futuristi non apprezzavano, non poteva che essere denigrata; e, in secondo luogo, che la prospettiva futurista non poteva approvare che la fotografia non solo si limitasse all’ambito documentale, ma fosse anche oggetto di commercializzazione in Italia e all’estero. Un ulteriore fattore a sostegno di questa interpretazione è rappresentato dell’opposizione dei futuristi alla diffusione di un’immagine dell’Italia superata, “una terra dei morti” che la fotografia commerciale all’estero promuoveva: la popolarità e convenzionalità di cui godeva portò i futuristi a rinnegare la fotografia nella sua interezza. In sintesi, dunque, è possibile ipotizzare che alla radice del rifiuto siano i caratteri della fotografia storica. Dall’altra parte, l’analisi della fotografia artistica o escapista mostra una glorificazione del “quadro antico”, un’emulazione di esso che si avvale frequentemente di “motivi e soggetti già sfruttati”: questo le impediva perciò di ritrarre la “vita contemporanea” e la rendeva agli occhi dei pittori futuristi oggetto di critica.

    Queste caratteristiche, che, nell’Italia degli inizi del XX secolo, inducevano le masse

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  • 國司 航佑
    イタリア学会誌
    2015年 65 巻 87-116
    発行日: 2015年
    公開日: 2017/03/27
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    Intorno al carattere e al significato del decadentismo italiano, c’è stato un lungo e acceso dibattito a cui hanno partecipato molti studiosi, quali Binni, Praz, Salinari e Ghidetti. In quanto loro testo di riferimento, il saggio di Benedetto Croce Di un carattere della più recente letteratura italiana, pubblicato sulla sua rivista «La Critica» nel 1907, può essere collocato al principio di questo dibattito.

    Nello scritto in questione, Croce divide cronologicamente la letteratura contemporanea in due gruppi: il primo (1865-1885) rappresentato da Giosuè Carducci e il secondo (1885-1907) dalla triade Fogazzaro-Pascoli-d’Annunzio. Croce istituisce un confronto fra i due gruppi, per poi asserire che, benché nel periodo più recente la letteratura possieda “la maggior finezza e complicazione spirituale”, tuttavia in essa “spira vento d’insincerità”. A queste seguono parole ancora più aspre ed ironiche: “nel passar da Giosuè Carducci a questi tre sembra, a volte, di passare da un uomo sano a tre neurastenici!”. Nel complesso, il giudizio crociano nei confronti del decadentismo italiano si mostra con evidenza in termini assai negativi.

    Sarebbe tuttavia errato ritenere che il giudizio di Croce sia sempre stato tale. Nel saggio su Carducci pubblicato nel 1903 su «La Critica», accingendosi all’esame dell’opera carducciana, Croce riconosce alla letteratura del periodo più recente un valore che non era possibile riscontrare in precedenza, defindolo “ben più serio e sostanzioso di quello che ad esso immediatamente precedette”. Croce, evidentemente, in quell’anno non vedeva ancora elementi discriminanti all’interno della letteratura contemporanea; anzi, attribuiva ad essa una posizione più significativa rispetto a quella del periodo tardoromantico. Inoltre, nel saggio su d’Annunzio del 1904, Croce vede nel poeta “una delle prove più sicure della rinascita di un’arte italiana, la quale ha assimilato, e sa esprimere in modo proprio e originale, le correnti spirituali dell’età moderna”. In queste parole emerge un’opinione molto positiva, incongruente rispetto all’atteggiamento mostrato da Croce nel 1907. Il fatto che a molti studiosi la sua posizione sembri coerente potrebbe essere attribuito a una maggior diffusione dei quattro volumi della Letteratura della nuova Italia (1914-1915), raccolte che sembrerebbero contenere tutti i saggi di critica letteraria pubblicati dal 1903 al 1914 su «La Critica», nella serie Note sulla letteratura italiana della seconda metà del secolo XIX, ma ricordiamo che essi non comprendono il suddetto saggio su Carducci. Inoltre, il capitolo su d’Annunzio si presenta con modifiche non trascurabili: eliminando molti passi elogiativi tra cui quello citato, rende palesemente meno positivo il giudizio crociano su d’Annunzio.

    Pertanto, è difficile negare che il giudizio espresso negli anni 1903-1904 contrasti in modo deciso con quello di tre anni dopo. Si può supporre che in questo lasso di tempo si sia verificato qualche avvenimento di gravità tale da indurre Croce a cambiare drasticamente il proprio atteggiamento. Da questo punto di vista, sappiamo che Croce si è dedicato alla ricerca delle opere pascoliane verso la fine del 1906. Non è da ignorare, inoltre, che è di questi anni l’apparizione di alcune opere fondamentali della nuova generazione filosofico-letteraria italiana, fortemente influenzata da d’Annunzio e da Pascoli, che formerà correnti culturali quali il futurismo e il crepuscolarismo.

    Nel presente articolo, si prendono in esame innanzitutto i tre saggi crociani sui rappresentanti del decadentismo italiano: Antonio Fogazzaro (1903), Gabriele d’Annunzio (1904) e Giovanni Pascoli (1907). Successivamente, in seguito a un’accurata analisi del saggio del 1907 Di un carattere della più recente letteratura italiana, si cerca di delineare il ribaltamento dell’atteggiamento crociano nei confronti dei

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