Nel 1778 Alessandro Verri (1741-1816) scrisse due tragedie di carattere sperimentale: Pantea e La congiura di Milano, che il presente articolo si propone di analizzare in quanto pratiche di innovazione teatrale.
È noto che nelle attività letterarie di Alessandro Verri è possibile distinguere due fasi diverse. La prima risale al periodo milanese in cui collaborava con il fratello maggiore Pietro per la redazione del periodico «Il Caffè» e fu presto interrotta per motivi intellettuali ed esistenziali. Solo dopo un lungo intervallo di oltre dieci anni si assiste alla ripresa dell’attività letteraria dell’autore nell’ambiente della Roma neoclassica. È a questo secondo periodo che risalgono Pantea e La congiura di Milano.
Queste opere, sebbene finora poco studiate, sono particolarmente degne di attenzione per quanti nutrono interesse per la metamorfosi del gusto letterario nel Settecento: esse rappresentano infatti un’occasione preziosa per osservare minuziosamente il modo in cui un letterato del tempo si impegnasse per portare il proprio contributo alla rinascita culturale italiana.
Secondo i fratelli Verri il teatro italiano mancava di forza espressiva e sentimentale. Neanche il teatro francese, per quanto da essi considerato superiore nel suo complesso, poteva essere riconosciuto come modello ideale a causa della tendenza stilistica ad enfatizzare l’interiorità dei personaggi. In questa prospettiva, Pantea e La congiura di Milano possono essere interpretati come il tentativo di superare e risolvere tali difficoltà.
La Pantea, allo scopo di intensificare il pathos tragico, introduce due tecniche: la presenza quasi costante della protagonista sulla scena da una parte, e la semplificazione estrema della trama dall’altra. Semplificazione apportata allo scopo di escludere episodi che non contribuissero ad accrescere l’impegno, e l’interesse del punto principale, definito più esattamente in una continua agitazione di Pantea fra il timore e la speranza. Nella Congiura di Milano, invece, l’autore coglie la sfida di rappresentare con efficacia l’irragionevolezza del cuore umano, e individua la soluzione nella figura del tiranno debole, Galeazzo. L’apparente crudeltà e spregiudicatezza del personaggio crollano repentinamente davanti al veemente rimprovero della madre, ma il suo tormento interiore non viene espresso esplicitamente, come sarebbe successo nel teatro francese, ma viene percepito in modo piuttosto ambiguo. Oltre a ciò, la figura del tiranno inconsapevole della fonte del suo rimorso serve a mettere in rilievo l’orrore derivante dalle passioni.
È opportuno ricordare qui il ruolo decisivo svolto da William Shakespeare nella formazione di tale drammaturgia. L’influenza del drammaturgo inglese sull’opera del Verri, sebbene non del tutto sorprendente, fu però il frutto di un gesto singolarmente audace e isolato nel contesto culturale italiano del Settecento, periodo in cui la maggior parte dei letterati non mostrava di tenere in grande considerazone lo stile shakespeariano, considerato troppo irregolare e imperfetto. La fredda reazione nei confronti dell’“ apostolo dello Shakespeare”, come fu definito Martin Sherlock, ne è un esempio eloquente. Viceversa, l’apprezzamento mostrato da Alessandro Verri per Shakespeare sembra confermare il carattere avanguardistico della sua produzione teatrale.
La stessa logica può essere individuata anche nel rifiuto della giustizia poetica, elemento drammatico molto gradito al pubblico del Settecento. Quanto questa scelta fosse rischiosa è dimostrato anche dal disaccordo espresso da Pietro, che addirittura proponeva di cambiare la fine della Congiura di Milano, che non solo non premia l’eroicità dei protagonisti, ma, al contrario, moralmente la condanna. Ricordiamo qui che anche le tragedie di Alfieri provocheranno la stessa divergenza
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