Studi Italici
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Volume 66
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  • TAKETO OHTA
    2016 Volume 66 Pages 1-20
    Published: 2016
    Released on J-STAGE: December 09, 2017
    JOURNAL FREE ACCESS

    Le macchine di Munari, pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1942, è uno dei primi “libri per i bambini” di Bruno Munari (1907-1998). La caratteristica comune delle macchine inserite in questo albo è di essere costituite da meccanismi eccentrici e immaginari, che, non presentando alcuna utilità o praticità, invitano il lettore al sorriso. In realtà, già prima della pubblicazione dell’opera, l’artista aveva presentato alcune versioni delle macchine, in particolare in forma di vignetta, nel giornale umoristico settimanale Settebello (1933-1941), dal 1938 al 1939.

    Come ammesso da Munari stesso, l’immagine delle sue macchine si ispirava al disegnatore, o, per essere precisi, “vignettista” umoristico statunitense Rube Goldberg (1893-1970), conosciuto come inventore della Rube Goldberg machine. La machine di Goldberg era infatti composta da un complesso meccanismo basato su una reazione a catena, ma in grado di fare soltanto una cosa banale e semplicissima. Dal 1912 il vignettista statunitense aveva cominciato a illustrare la serie di machine per la stampa, e la sua attività aveva suscitato l’attenzione di una parte del campo artistico del suo Paese (per es. di Marcel Duchamp e del Museum of Modern Art di New York). Certo nell’albo di Munari è possibile trovare indizi della conoscenza della Rube Goldberg machine, ma le macchine munariane contengono anche elementi che ne indicano l’originalità. In primo luogo la decisa negazione dell’utilitarismo della macchina in termini generali e il mancato utilizzo nell’illustrazione della macchina della reazione a catena, cioè l’elemento più caratterizzante della Goldberg machine. In altre parole, il “nonsense” delle macchine munariane appare sottolineata in modo più drastico.

    Pur non dichiarando esplicitamente modi e tempi della conoscenza del lavoro di Goldberg, Munari aveva già presentato un prototipo di Macchine almeno in una pagina della rivista annuale non umoristica Almanacco letterario Bompiani del 1933.

    Dal 1927 al 1937, Munari, seppure partecipe del movimento futurista italiano, non fu in grado di dedicarsi alla pura arte e, per guadagnarsi da vivere, dovette fare molte esperienze nel campo dell’editoria come vignettista o illustratore. A Milano, infatti, dove egli si trovava, stavano crescendo rapidamente alcuni grandi imprese editoriali come Bompiani o Mondadori.

    Negli anni Trenta, intanto, fiorivano alcuni nuovi e popolarissimi giornali umoristici come Marc’Aurelio (1931-1958) o Bertoldo (1936-1943). La repressione esercitata sui giornali umoristici antifascisti negli anni Venti aveva vietato le vignette satiriche a tema generalmente politico e in questo clima gli umoristi professionisti, quando non favorevoli al regime, sottoposti alla censura e alla guida amministrativa, si trovavano a disegnare vignette che, attaccando Paesi stranieri come Francia, Inghilterra e Unione Sovietica, li dipingevano come nemici. Sotto questo aspetto, il concetto umoristico delle Macchine create da Munari non era si poneva in contrasto con il regime, ma piuttosto era neutrale rispetto alla linea politica.

    La collaborazione di Munari al Settebello fu favorita da un abile dirigente della testata: Cesare Zavattini (1902-1989), uno dei grandi sceneggiatori del cinema neorealista dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questi, lavorando durante gli anni Trenta per varie case editrici milanesi in qualità di redattore e correttore di bozze, aveva incontrato Munari nella redazione dell’Almanacco letterario Bompiani. In quel periodo Zavattini era incaricato del progetto del Bertoldo per la Rizzoli, ma venne assunto dalla Mondadori per occuparsi della direzione di vari periodici dal 1936 in poi. Nel 1938, quando gli venne affidato l’incarico di caporedattore del Settebello, Zavattini chiamò Munari fra i giovani vignettisti e questo

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  • —UN’ODISSEA NEL GIAPPONE SETTENTRIONALE AI TEMPI DELLA GUERRA BOSHIN (1868-69)—
    GIULIO ANTONIO BERTELLI
    2016 Volume 66 Pages 21-52
    Published: 2016
    Released on J-STAGE: December 09, 2017
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    La restaurazione Meiji del 1868, come è noto, spazzò via in poco tempo le vestigia del decrepito regime shogunale dei Tokugawa. Tuttavia, nonostante la nascita del nuovo governo imperiale, diversi feudi settentrionali del Giappone rimasero fedeli a Tokugawa Yoshinobu, l’ultimo shōgun. Questa rottura portò ad una guerra civile (conosciuta come “guerra Boshin”), che vide, tra l’estate del 1868 e la primavera del 1869, il protrarsi degli scontri fra le truppe imperiali e i Tokugawa appoggiati dagli han del Nord fino alla battaglia finale di Ezo, conclusasi nel maggio 1869.

    Il primo Ministro Plenipotenziario d’Italia, conte Vittorio Sallier De La Tour, era giunto in Giappone nel 1867, in seguito alla firma del Trattato di Amicizia e Commercio fra Giappone e Italia. Uno degli obiettivi principali della sua missione era tutelare l’attività dei “semai”, ovvero i commercianti di uova dei bachi da seta. Essi, armati di coraggio e spirito d’iniziativa, già nella prima metà degli anni ‘60 avevano iniziato a recarsi in Giappone allo scopo di procurarsi la preziosa merce, indispensabile per il superamento della crisi in cui versava l’industria serica italiana, messa in ginocchio dalla “pebrina”, un’epidemia che colpiva i bachi da seta riducendone drasticamente le capacità produttive.

    In questo contesto si inserisce una testimonianza inedita particolarmente interessante: il Giornale di un viaggio nel Nord del Giappone del semaio italiano Giacomo Farfara. Si tratta di un manoscritto in italiano inviato a più riprese alla moglie del Ministro d’Italia, la parigina Mathilde Sallier De La Tour, nata Ruinart De Brimont, donna colta, coraggiosa e affascinante. Al giornale di viaggio sono abbinati alcuni schizzi cartografici relativi ad alcune delle località visitate (le baie di Miyako, Hachinohe e Aomori), due lettere confidenziali indirizzate alla contessa De La Tour e un’altra laconica missiva indirizzata al Ministro.

    Farfara fu uno dei semai più attivi in Giappone: di origine livornese ma operante a Milano, dove nel 1870 costituirà, insieme all’amico e socio d’affari giapponese Ōtani Kōzō e al ricco commerciante milanese Brambilla, la “Società Italo Giapponese”, e, nel 1872, insieme al fratello Nino e al socio francese Théophile Grenet, la ditta commerciale “Farfara e Grenet”, attiva per diversi anni tra Milano, Parigi e Yokohama.

    Il Giornale di Farfara inizia a Yokohama il 29 ottobre 1868 e termina a Noheji, nella baia di Aomori il 15 gennaio 1869. La lunghezza del manoscritto è di 57 facciate (di 26-27 righe ciascuna); in esso l’autore narra alla contessa le sue peripezie a bordo di un’imbarcazione a vela, il Gaucho, spesso in balìa di marosi e tempeste. Riporta inoltre i suoi incontri e scambi di vedute con alcuni personaggi che ebbero un ruolo determinante nell’andamento della guerra Boshin. Tra essi spiccano Jules Brunet (1838-1911), ufficiale francese esperto di artiglieria e consigliere militare del Bakufu, che dopo la Restaurazione aveva rifiutato di rimpatriare avendo deciso di combattere fino alla fine al fianco dei Tokugawa e dei loro alleati, e il famoso ammiraglio Enomoto Takeaki (1836-1908), che si era recato con la flotta dello Shogun a Ezo (l’attuale Hokkaidō) e vi aveva istituito un effimero governo provvisorio. Farfara riferisce inoltre alla contessa gli abboccamenti avuti con le autorità di alcune province settentrionali fedeli ai Tokugawa riguardo alla sua scomoda e difficile missione: trasportare a Miyako (nell’attuale Iwate) una grossa partita di armi e munizioni in una fase decisiva della guerra civile.

    In questa indagine, alla luce di alcuni degli stralci più significativi del Giornale e delle lettere, ci si propone di comprendere le motivazioni che avrebbero spinto un italiano, in ottimi rapporti con la moglie del Ministro d’Italia

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  • INTORNO A UNA TESTIMONIANZA ESTERNA PER LA DATAZIONE DELLA MONARCHIA
    HITOSHI HOSHINO
    2016 Volume 66 Pages 53-76
    Published: 2016
    Released on J-STAGE: December 09, 2017
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    Scopo di questa indagine è l’esame di una delle rare testimonianze esterne utili alla datazione della Monarchia dantesca, vale a dire l’inciso «sicut in Paradiso Comedie iam dixi» (Mon. I, xii, 6), e valutarne la portata. La scelta di accoglierlo in senso letterale comporta necessariamente che la Monarchia sarebbe l’ultima opera scritta da Dante dopo il compimento della Commedia, ma questo non impedisce che il dibattito tra gli studiosi sia tuttora aperto, e da più di cento anni.

    L’ultima edizione critica dell’opera (Shaw 2009) prende in considerazione venti manoscritti più l’editio princeps. Tra questi ventuno testimoni, solo all’editio princeps manca la frase in questione, degli altri, sedici la riportano interamente, due mostrano solo piccole variazioni che non alterano la sostanza del brano, mentre gli ultimi due presentano l’omissione di alcune parole.

    In questo luogo, dunque, la princeps presenta una lectio singularis. Non è da escludere che l’omissione sia in qualche modo riconducibile all’errata paternità della Monarchia riferita dal curatore della cinquecentina, Oporino. Questi, infatti, nell’introduzione attribuisce il trattato non all’autore della Commedia ma a un omonimo filosofo, un Dante Alighieri contemporaneo e amico di Poliziano. La frase, dunque, sarebbe stata cassata dall’editore in buonafede (e si tratterebbe, pertanto, di una emendatio di ciò che ai suoi occhi era un errore) o meno (e si potrebbe parlare, in questo caso, di falsificazione). Il testo della princeps, piuttosto curato, fu più volte ristampato.

    Solo nel 1965, però, con l’edizione nazionale curata da Pier Giorgio Ricci, è stata definitivamente fissata a testo la lezione «sicut in paradiso Comedie iam dixi», confermata più tardi nell’edizione Shaw 2009. In essa si evidenzia che la mancanza di quell’inciso nelle edizioni otto-novecentesche del volgarizzamento di Marsilio Ficino del trattato politico è frutto del taglio dei curatori, giacché in tutti i testimoni della traduzione la frase in questione – in volgare – è presente).

    Recentemente Diego Quaglioni, curatore dell’edizione mondadoriana dell’opera, ha proposto una nuova lettura di questo passo sulla base di un nuovo manoscritto londinese (British Library, Add. 6891), con la congettura «sicut inmissum a Domino inmediate iam dixi» (il ms. presenta «sicut inminuadiso inmediate iam dixi»). L’ipotesi, tuttavia, è alquanto forzata, e sminuisce il resto della tradizione manoscritta.

    Un possibile indizio esterno utile alla datazione è stato portato alla luce qualche anno fa da Giorgio Padoan: il riferimento, nell’epistola a Cangrande della Scala, alle «alia utilia reipublice» (Ep. XIII, 88). Qui Dante si scusa con lo Scaligero di non poter proseguire il suo commento al Paradiso e di non portare a termine “altre attività di interesse pubblico”: generica definizione che Padoan riferisce al completamento della Monarchia. L’ipotesi potrebbe parere arbitraria, ma un’indagine sull’uso dell’aggettivo «publicus» in Dante potrebbe forse contribuire a chiarire la questione: esso, infatti, ricorre venticinque volte nelle opere dantesche, e in dodici di queste a formare l’espressione «rei publice». Dieci occorrenze sono concentrate in Monarchia II, v, in corrispondenza di una citazione ciceroniana; in precedenza (Monarchia I, i, 2-3) Dante dichiara la speranza di scrivere un libro utile all’interesse pubblico, mentre l’ultima si trova nel passo sopra citato dell’epistola a Cangrande. Pare dunque ragionevole ipotizzare che «alia utilia reipublice» possa alludere proprio alla Monarchia, il che sposterebbe significativamente in avanti la datazione dell’opera, vale a dire dopo la redazione della suddetta epistola.

    Oltre quanto esposto fin qui, infine, si ritiene opportuno tenere in considerazione anche due testi di Giovanni

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  • HIROSHI KATAYAMA
    2016 Volume 66 Pages 77-105
    Published: 2016
    Released on J-STAGE: December 09, 2017
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    Si ritiene comunemente che, nonostante la diffusione del romanzo popolare nel secondo Settecento, il primo romanzo italiano degno di attenzione sia stato le Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. Tuttavia, come già fu affermato da Luca Assarino («Gran secolo di romanzo è questo ») e Giovanni Ambrosio Marini («Veramente questa è l’età dei romanzi») in quello stesso 1640, già nel Seicento era possibile individuare una moda del romanzo: erano infatti state pubblicate più di duecento opere e le più fortunate avevano superato le trenta edizioni. Questi romanzi, seppure quasi completamente dimenticati già nel Settecento, non sono senza importanza, sia perché rappresentano una fase dello sviluppo della narrativa in prosa sia in quanto manifestazioni di un fenomeno storico-culturale.

    Nel quadro generale dei romanzi italiani secenteschi, che si va facendo sempre più chiaro dopo il censimento bibliografico compiuto da Mancini negli anni ’70, il posto del precursore, come era già stato ampiamente riconosciuto anche dai contemporanei, è occupato da Giovanni Francesco Biondi (1572-1644). La pubblicazione della sua prima opera, L’Eromena (Venezia, 1624) segnò da parte di Biondi l’introduzione in Italia del genere del romanzo cosiddetto “eroico-galante”: un romanzo d’amore e d’avventura che narra le storie di più coppie, ad imitazione dei romanzi greci ritrovati nel Cinquecento. Colui che però aveva dato inizio alla moda del genere nell’intera Europa era stato lo scozzese John Barclay, con il romanzo in latino Argenis (1621). È dunque indispensabile operare un confronto fra i loro romanzi, in considerazione anche del fatto che per qualche anno i due autori servirono insieme il re James I d’Inghilterra.

    Gli elementi innovativi dell’Argenis rispetto ai romanzi cavallereschi precedenti emergono infatti anche nei romanzi biondiani: il realismo, i dialoghi politico-filosofici fra i personaggi e l’allegoria storica, che narra episodi di vita di persone reali trasportandoli in epoche e luoghi diversi e cambiando i nomi dei protagonisti. Quest’ultimo elemento dell’Argenis attrasse l’attenzione del pubblico al punto che, a pochi anni di distanza dalla prima edizione, ne fu pubblicata un’edizione corredata di “chiavi”. Per quanto tali edizioni della trilogia biondiana non esistano, è ampiamente accettata dagli studiosi l’interpretazione proposta da Christianus Gryphius (1710), che riconosce nell’Eromena le vicende tragiche di Elizabeth Stuart, figlia di James I, e Friedrich V del Palatinato. A ben guardare, tuttavia, questa interpretazione non sembra essere così immediata. Infatti, diversamente dalla tragedia di Elizabeth e Friedrich, la storia dei protagonisti del romanzo, Eromena e Polimero, ha un lieto fine: per questa ragione neanche i contributi di Getrevi (1986) e di Savoia (1994) sembrano sufficienti a confermare l’ipotesi di Gryphius. Allo scopo anche di comprendere meglio questo primo romanzo, dunque, si ritiene opportuno analizzare i due romanzi successivi, i quali, per motivi non chiari, sembrano non aver ricevuto fino ad oggi sufficiente attenzione.

    Il primo dei due episodi, esaminato nel presente lavoro, viene narrato dal Conte di Bona ne La donzella desterrada (1627) come «nuova di Ponente » degli ultimi dieci anni. Le vicende della casa reale di Gaula Belgica che vi si narrano rappresentano, dissimulandole, quelle della casa reale inglese dalla morte precoce del principe Henry-Frederick, al matrimonio fra Elizabeth e Friedrich V e il loro esilio in Olanda, fino al fallito tentativo di matrimonio fra il principe Charles e la principessa María Ana di Spagna. Il fatto che qui si celi la tragedia di Elizabeth e Friedrich rende l’interpretazione di Gryphius più attendibile. Questo episodio, d’altronde, è molto significativo perché mostra con nettezza il giudizio

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  • DEI GIARDINI, DELLA SCENA E DELLO SPAZIO NEGLI INNI ALLE GRAZIE DI UGO FOSCOLO
    DANIELA SHALOM VAGATA
    2016 Volume 66 Pages 107-128
    Published: 2016
    Released on J-STAGE: December 09, 2017
    JOURNAL FREE ACCESS
  • [in Japanese]
    2016 Volume 66 Pages 129-151
    Published: 2016
    Released on J-STAGE: December 09, 2017
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