Studi Italici
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Volume 71
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  • KENTA MATSUI
    2021 Volume 71 Pages 1-28
    Published: 2021
    Released on J-STAGE: November 16, 2021
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    Aldo Rossi (1931-1997), uno dei principali architetti e teorici dell’architettura postmoderna, negli anni Cinquanta acquisì, attraverso il contatto con la cultura degli intellettuali del Partito Comunista Italiano, riferimenti, concetti e temi che ne determinarono il successivo orientamento teorico. Qui viene presentato il legame organico tra quei motivi extradisciplinari e lo sviluppo della teoria architettonica di Rossi, mettendo a fuoco lo strano, e pressoché sconosciuto, incontro tra Rossi e l’architettura sovietica come modello di collegamento tra cultura comunista e cultura architettonica e cercando di offrire una prospettiva coerente dello sviluppo teorico di Rossi in quegli anni.

    La cultura architettonica, nell’Italia del dopoguerra, manteneva un canale di comunicazione attivo con il Partito Comunista Italiano e Rossi, allora studente della scuola di architettura di Milano, partecipava negli stessi anni alle conferenze del partito e contribuiva alla rivista ufficiale. La Commissione Culturale, organo ufficiale del Partito, che interveniva in modo deciso in ambito pittorico e letterario, non era altrettanto manifestamente presente in ambito architettonico, lasciando uno spazio che Rossi cercò di colmare infondendovi la propria teoria.

    Il trasferimento in campo architettonico del dibattito culturale interno al Partito indusse Rossi a concentrarsi sui temi di tradizione e realismo: nel dopoguerra, il movimento moderno aveva guardato con interesse al tema della tradizione come possibile fattore di rafforzarmento e accelerazione, ma nella visione di Rossi esso rappresentò un elemento di radicale trasformazione: la tradizione, in questo senso, fu interpretata nell’ambito della discussione sul passaggio “dal neorealismo al realismo” avanzata dai critici del Partito dell’epoca.

    Per la teoria di Rossi su tradizione e realismo, foriero di un orizzonte specifico per l’architettura fu l’incontro con l’architettura stalinista durante il viaggio a Mosca. Le architetture urbane del Realismo socialista e gli ornamenti classici che il movimento moderno in architettura aveva cercato di cancellare offrivano a Rossi uno spunto per la riflessione teorica, secondo cui rivoluzione ed elementi architettonici tradizionali potevano coesistere. L’esperienza indusse Rossi a progettare un articolo che esaltava l’architettura stalinista come alternativa al movimento moderno per la rivista comunista Società, che non fu però mai pubblicato. L’architettura stalinista, d’altra parte, fornì alla riflessione di Rossi non solo termini di riferimento concreti ma anche problematiche complesse, come la critica del “superfluo” nell’architettura accademica sovietica, sviluppata da Nikita Khrushchev alla fine del 1954. Il leader della nuova U.R.S.S. si appellava all’industrializzazione, uno dei principi del movimento moderno in architettura, il che fu percepito in Italia come un ritorno al movimento dell’architettura russa, in contrasto con l’elogio tessuto da Rossi verso l’architettura stalinista, nel tentativo di interpretare la critica al superfluo di Khrushchev in chiave diversa dal ritorno all’architettura moderna o dalla critica dell’architettura stalinista.

    Le speculazioni di Rossi su tradizione e realismo culminarono infine, grazie al consiglio dei redattori di Società, in un articolo sull’architettura neoclassica milanese del XVIII e XIX secolo, che approfondiva l’ambito teorico dei temi presentati dal Partito Comunista Italiano e i problemi posti dall’architettura sovietica: l’architettura neoclassica milanese è definita come sintesi di due razionalismi, risposta al problema sollevato dall’architettura sovietica sull’adeguata interpretazione della valutazione della monumentalità e della critica del superfluo in modo coerente e senza contraddizioni. La discussione di Rossi sulla tradizione

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  • MAMI TANAKA
    2021 Volume 71 Pages 29-49
    Published: 2021
    Released on J-STAGE: November 16, 2021
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    La composizione del Corbaccio, opera in prosa di Giovanni Boccaccio, è collocata da gran parte degli studiosi intorno alla prima metà degli anni a partire dal 1360. Il protagonista dell’opera è innamorato di una vedova che non ne ricambia l’amore e lo canzona con un altro amante. Il protagonista giunge sull’orlo del suicidio, ma si allontana da questo proposito, si addormenta e sogna di smarrirsi in una valle deserta e selvatica dove incontra lo spirito del marito della vedova. Questi lo rimprovera e lo convince a liberarsi dal peccato dell’amore terreno presentando una rappesentazione poco lusinghiera dei difetti femminili, e in particolar modo quelli della vedova stessa. Lo spirito guida infine il protagonista sulla vetta di una montagna altissima da cui una luce sorge da oriente come il sole. La visione a questo punto si conclude e il protagonista, risvegliatosi, risolve di liberarsi dalle catene dell’amore.

    Narrato in prima persona, il racconto venne in origine interpretato come una vicenda vissuta in prima persona dall’Autore, ma la maggior parte della critica lo considera oggi un elemento indicante la tendenza verso gli studi umanistici e la vita sacerdotale. Vari studiosi, in particolare Barricelli e Hollander, propongono inoltre che la satira misogina, interpretabile come riprovazione degli uomini stessi, renda l’opera paradossalmente satirica. Seguendo la tendenza dominante, Marti definisce il sogno “una sorta di Divina Commedia in piccolo, per un analogo itinerario verso la salvezza dell’anima ed escatologiche finalità”, considerandolo per lo più un’imitazione boccacciana in omaggio al Sommo Poeta, un’opera religiosamente pedagogica. La lunga tradizione onirica letteraria attribuisce al sogno la trasmissione di verità altrimenti inaccessibili e richiede un’analisi del sogno del Corbaccio anche in questa luce. L’interesse verso l’onirico, presente del resto anche in altre opere dell’Autore, mostra che il sogno di Corbaccio potrebbe mirare al proposito pedagogico del “piccolo trattato” secondo un percorso rinvenibile anche in altri testi che non parlano, però, di questo fenomeno.

    L’analisi tiene dunque conto di due elementi: la presenza dello spirito rivelatore della verità e la categorizzazione dei sogni in cinque tipi compiuta da Boccaccio nelle Genealogie gentilium deorum, la sua opera enciclopedica, che riprende la distinzione di Macrobio nel commento al Somnium Scipionis. Fra questi, il genere oraculum è caratterizzato dalla presenza di una guida (un antenato, un santo o lo stesso Dio) che annuncia profezie al sognatore. Lo spirito del Corbaccio, messo della volontà divina per la salvezza del protagonista, può essere interpretato come elemento del sogno “premonitore”.

    L’ora in cui il sonno si interrompe, inoltre, può offrire indizi utili all’interpretazione: al risveglio, il protagonista rievoca ciò che ha visto e udito, e attribuisce alla visione un giudizio di verità vedendo “già il sole essere levato sopra la terra”. La durata della riflessione non ci è nota, è ragionevole supporre che la visione sia avvenuta nelle ore del mattino. Il contesto dantesco permette di attribuire valore di premonizione al sogno del mattino, come si ricorda in Ura (1994), e lo stesso Boccaccio si avvale di questa tipologia, per esempio, nella Elegia di madonna Fiammetta (I 2-3). Le caratteristiche suggeriscono dunque un sogno veritiero e degno di fede, anche se le preoccupazioni precedenti la visione, nutrite dal protagonista rispetto alla vicenda della vedova, sembrano suggerire il genere insomnium, che nella definizione macrobiana non è foriero di verità. Boccaccio allude al sogno di Scipione, considerato veritiero, quale esempio (Genealogie, I, XXXI, §9), ma non esclude che le preoccupazioni possano originare un sogno latore di verità. Nel suo capolavoro si incontra infatti

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  • RUI KANNO
    2021 Volume 71 Pages 51-72
    Published: 2021
    Released on J-STAGE: November 16, 2021
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    Le avventure di Affo (1782), primo romanzo di Alessandro Verri, conobbe un successo notevole subito dopo la pubblicazione, divenendo, diremmo oggi, un longseller che continuò ad essere ristampato anche nel secolo successivo. Da esso, la critica ha tratto spunti di discussione di ambito tanto estetico che ideologico, fra i quali in questo studio si metterà in evidenza il pittoricismo.

    Il fratello di Alessandro, Pietro, in una lettera avvicinò lo stile del romanzo a un dipinto, indicazione che il tono pittorico dell’opera era già stato colto dai contemporanei. Successivamente, però, Walter Binni lo giudicò come eccesso di colore e aggettivazione, e Cesare Federico Goffis come “una miniatura”. Il presente lavoro evidenzia la necessità di maggiore approfondimento di tale caratteristica stilistica, la cui interpretazione è stata spesso circoscritta all’adattamento al gusto del tempo. Pertanto, una nuova prospettiva di indagine può essere aperta attraverso l’analisi strutturale dell’opera e la sua collocazione nella corrente degli studi sullo sviluppo del romanzo verso la fine del Settecento.

    Il primo passo qui compiuto consiste nel confronto dell’opera con il pittoricismo di un romanzo coevo, L’amor tra l’armi (1773) di Antonio Piazza, anch’egli uno dei romanzieri più popolari del tempo. Non è la sola contemporaneità a giustificare questa scelta: vi si aggiungono infatti la somiglianza delle tematiche e della struttura dei due romanzi. Nell’indice comparativo, riconoscendo la difficoltà di cogliere appieno le informazioni visive, si evidenzia qui solo il numero di sostantivi e aggettivi relativi a colore e chiaroscuro presenti nelle descrizioni, che nelle Avventure raggiungono rispettivamente il numero di 19 e 55, mentre L’amor ne registra un numero molto più limitato: rispettivamente 2 e 6: questi dati, pur considerando la maggiore lunghezza della prima opera, sostanzialmente confermano il giudizio di Binni. Una tendenza simile è rilevabile per il lessico riferito al chiaroscuro: sostantivi e aggettivi indicanti luminosità sono 28 e 15 nelle Avventure, mentre L’Amor ne registra 15 e 0. I termini indicanti oscurità sono 13 e 13 nella prima opera, 6 e 0 nella seconda. Questi primi dati suggeriscono notevoli differenze non solo di livello quantitativo, ma anche qualitativo. Mentre il Verri mostra grande consapevolezza nell’uso del contrasto, del multicolore e della gradazione, il Piazza ne fa un uso assai tenue e virtualmente assente. L’introduzione, quale ulteriore termine di confronto, dell’Abaritte di Ippolito Pindemonte, scritto nel 1790, ottiene dati simili, seppur indicando maggiore pittoricismo rispetto a L’Amor. Le differenze rilevate in queste opere rimandano in ultima analisi alla quantità di descrizioni di sfondi e tratti fisici e dei costumi, che abbondano nelle Avventure.

    Il tono descrittivo dell’opera è comunemente interpretato come attribuibile ai canoni tradizionali, al gusto contemporaneo o alla sensibilità preromantica, ma Rosamaria Loretelli offre un’ipotesi sulla nascita del romanzo moderno introducendo uno spunto interessante per un cambio di prospettiva. Il suo studio Invenzione del romanzo (2010) evidenzia che la lettura era un’attività accompagnata dalla voce fin dall’antichità e che la struttura narrativa era basata sulla performance di chi leggeva, ma è proprio nel Settecento si registra una cesura: con la diffusione della lettura silenziosa, gli scrittori dovevano affrontare il problema di come mantenere viva la curiosità del lettore fino alla fine del racconto. I romanzieri inglesi pervengono a una soluzione derivante da osservazioni humiane: l’introduzione dell’unità percepita e degli ostacoli al flusso del racconto. Nel Settecento, il tempo di lettura di un romanzo era più breve rispetto al passato e il ravvivare la curiosità del lettore rese

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  • UN’ANALISI DELLA SCENA CULMINANTE DELL’AZIONE DRAMMATICA E LA CRITICA DEL DOPOGUERRA
    YASUHIRO SAITO
    2021 Volume 71 Pages 73-101
    Published: 2021
    Released on J-STAGE: November 16, 2021
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    Il 1925 rappresentò per Pirandello l’anno della svolta: grazie ai sussidi di Mussolini, riuscì infatti a creare una sua compagnia teatrale, ma ciò decretò anche l’inizio dell’inimicizia fra l’Autore e Adriano Tilgher, critico teatrale e filosofo antifascista, con il quale era stato fino ad allora legato da profonda amicizia. L’esistenza della compagnia determinò un ulteriore cambiamento: l’incontro con la giovane attrice Marta Abba, che divenne immediatamente la sua nuova musa nonostante le critiche dei familiari (e della moglie dalla mente instabile, e sua prima, spietata, musa).

    Nelle intenzioni di Pirandello, la nuova pièce Diana e la Tuda avrebbe ottenuto un successo tale da consentirgli di porre riparo tanto al rapporto con i figli, che gli rimproveravano di averli abbandonati, quanto a quello con Tilgher. I due anni di gestazione dell’opera avrebbero infatti dato alla luce un nuovo stile drammaturgico che vedeva Marta nel ruolo di protagonista.

    Schema del dramma è il consueto triangolo amoroso: il giovane scultore Sirio trae ispirazione per la statua di Diana dalla bella Tuda, che renderà sua personale modella anche sposandola. Le estenuanti richieste da lui rivolte alla modella la portano però a perdere freschezza mentre nuova vita va infondendosi nella statua. La superiorità dell’Arte sulla Vita, alla base dell’azione artistica di Sirio, contrasta con la visione del vecchio scultore Giuncano, per il quale priorità è da attribuirsi alla Vita. Egli tenta perciò di dissuadere Sirio, senza successo, dall’immolare Tuda sull’altare dell’Arte. La modella finirà per abbandonarlo, ma questi la riprenderà con la forza, stremata e irriconoscibile.

    Nel corso della Scena delle Follie che si svolge davanti alla statua, Pirandello modifica la linearità logica della trama: fino ad allora l’Arte (Diana) aveva assorbito in sé la fresca bellezza della Vita (Tuda), ma oltre questo punto non pone più limiti alla propria voracità arrivando ad estorcere perfino gli occhi alla Vita maltrattata. L’Autore, probabilmente su richiesta dell’attrice, ha certamente ritoccato il testo della scena allo scopo di accrescerne la carica drammatica, e la forzatura mette in evidenza l’insaziabile sadismo dello scultore, sostenitore della visione dell’Arte per l’Arte. A seguito dell’oscuramento del teatro per il cambio di scena, agli occhi degli spettatori si presenta la stanza della tortura del meta-teatro: Sirio sottopone la modella alla tortura per estorcerle perfino gli occhi di odio, mentre il vecchio Giuncano, che nutre verso Tuda un sentimento purissimo, senza riuscire a darle consolazione, non può che venerarla quasi come un’entità soprannaturale. Forma, forse, anch’essa di sadismo, seppur rovesciato: mentre l’uno sottrae tutto, l’altro non sa offrire alcunché. Pirandello intendeva forse rappresentare l’amore proibito per Marta trasferendo il tormento nell’immaginario, mentre la tortura nello spazio meta-teatrale ricorda Sant’Agata di Sicilia e il suo martirio avvenuto attraverso il taglio dei seni.

    Se l’opera non concesse all’Autore il successo sperato, gli permise però di superare i limiti di quella prima maniera che lo aveva reso famoso; l’approccio al mondo ignoto, ma non meno importante, della seconda maniera, le cui protagoniste riflettono l’immagine di Marta: Come tu mi vuoi (1930), Trovarsi (1932), I giganti della montagna (1936, opera, questa, incompiuta).

    In questa ricerca si mostra come tale seconda maniera non abbia goduto della considerazione che avrebbe meritato e che le cause di ciò siano da attribuire alla stroncatura che dell’opera fece Adriano Tilgher. La sua influenza, ancora più vasta dopo la Seconda Guerra Mondiale, si riflette nelle parole di Gaspare Giudice che, nel 1963, introduce il pensiero di Tilgher nel modo seguente: “C’era un coincidere cronologico

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  • NAMIKI SERIZAWA
    2021 Volume 71 Pages 103-131
    Published: 2021
    Released on J-STAGE: November 16, 2021
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    La Madonna di Tarquinia (Roma, Palazzo Barberini,1437) realizzata da Filippo Lippi (1406-1469) agli inizi della sua carriera è ritenuta dagli storici dell’arte un’opera rivoluzionaria. Il cartiglio ai piedi della Vergine indica l’anno di esecuzione con la data MCCCCXXXVII e l’opera fu identificata nel 1917 dallo storico dell’arte Pietro Toesca che la rinvenne nella chiesa di Santa Maria in Valverde a Tarquinia (allora Corneto). Essa mostra lo sviluppo radicale dell’artista e soprattutto manifesta l’influenza della pittura fiamminga sempre esaminata dagli studiosi con grande interesse. Per quanto oggetto di studi approfonditi, si ritiene che poca rilevanza sia stata attribuita al luogo di origine dell’opera o alla sua funzione: in questo lavoro si intende perciò presentare un’indagine sulla possibile provenienza dell’opera, evidenziando il ruolo del legame che essa rivela con il Palazzo Vitelleschi, il motivo della commissione e il significato attribuibile agli elementi del dipinto.

    Sebbene nessun documento relativo alla commissione sopravviva, gli studiosi sono concordi nel ritenere che il committente fosse Giovanni Vitelleschi, prelato guerriero, arcivescovo di Firenze dal 1435 e cardinale dal 1437. Tornato alla natia Corneto, vi fece costruire un sontuoso palazzo, noto oggi come Palazzo Vitelleschi. Le ricerche pubblicate fino ad oggi riguardo alla provenienza della Madonna di Tarquinia propongono le seguenti ipotesi: Giuseppe Cultrera ritiene che la tavola potrebbe essere stata trasferita dalla chiesa di S. Maria di Castello a quella di S. Maria in Valverde, ipotesi che non sembra però sufficientemente suffragata dai fatti, poiché la prima fu abbandonata nel 1435 e la zona era già in decadenza quando la tavola del Lippi veniva probabilmente eseguita. Livia Carloni ipotizza invece che il luogo originario della tavola fosse la chiesa del di S. Marco, il monastero agostiniano. Secondo Carloni il cardinale aveva l’intenzione di costruirvi una cappella funeraria, e avrebbe dunque commissionato la tavola per posizionarla sull’altare. Anche la solidità di questa ipotesi è però messa in dubbio dalla mancanza di prove che la sostengano. Nella presente ricerca si riprende in esame l’ipotesi che la tavola sia stata ideata per la cappella privata del palazzo Vitelleschi: seppure già proposta in passato ad esempio da Jeffrey Ruda (1993), questa ipotesi non sembra infatti aver ricevuto un approfondimento adeguato.

    Il palazzo costruito tra il 1436 e il 1439 dal Vitelleschi incorporò edifici preesistenti, e la cappella, dedicata ai Diecimila Martiri, si trova al terzo piano del palazzo ed è annessa allo studiolo del Vitelleschi stesso. Si possono trovare le seguenti somiglianze architettoniche e decorative tra il palazzo del cardinale e la tavola del Lippi. Innanzitutto, uno degli indizi a sostegno di questa ipotesi è la presenza, in un affresco del primo piano del palazzo, di una raffigurazione della Vergine col Bambino in braccio. Affiancata ad un lato da un personaggio a cavallo, con ogni probabilità il cardinale Vitelleschi stesso. Questa immagine permette di percepire la devozione di Vitelleschi per la Santa Vergine come nella Madonna di Tarquinia. Lo stile che fonde elementi gotici e rinascimentali è riscontrabile sia nella architettura del Palazzo sia nella tavola del Lippi: di chiara ispirazione rinascimentale lo stile pittorico, ma in stile gotico la cornice, che si ritiene qui originale. Altri parallelismi sono tracciabili tra il dipinto di Lippi e l’architettura del palazzo. Ad esempio la ripetizione della forma curva nell’architettura del dipinto e nella forma della tavola stessa e la forma della cappella privata del palazzo. O ancora, i pilastri della cornice richiamano le colonne tortili presenti sia ai lati della cappella che in diversi affreschi.

    L’approfondita analisi

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  • LA FOTOGRAFIA IN ITALIA DAGLI ALBORI ALL’INIZIO DEL XX SECOLO
    KAHLUA TSUNODA
    2021 Volume 71 Pages 133-159
    Published: 2021
    Released on J-STAGE: November 16, 2021
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    Movimento artistico d’avanguardia diffusosi in tutto il mondo attraverso il manifesto Fondazione e Manifesto del Futurismo pubblicato nel 1909, voltava le spalle al passato e rifiutava la tradizione, glorificando la bellezza delle macchine, della velocità e del dinamismo che ben si adattavano allo spirito del nuovo secolo. La sua sfera d’azione venne ampliata ad ogni espressione artistica purché ne condividesse lo spirito, caratterizzandone la natura interdisciplinare, ma in questo quadro il fotodinamismo rappresentò un’eccezione a cui non venne concesso alcuno spazio.

    Inventato nel 1911 dai fratelli Bragaglia, Anton Giulio (1890-1960) e Arturo (1893-1962), per i pittori del primo futurismo esso non meritava alcuna collocazione all’interno del movimento: pittori come Umberto Boccioni, che miravano a riprodurre sulla tela “il dinamismo del mondo come sensazione dinamica”, percepivano nella fotografia un congelamento della sensazione del movimento sulla pellicola e ciò ne escludeva il riconoscimento come forma d’arte.

    Un esame della letteratura manifesta la problematicità della macchina fotografica per i pittori futuristi: la fotografia non poteva infatti che immortalare la realtà in maniera veritiera, imprimendola in un eterno istante a cui ogni forma di dinamismo era negata e ciò ne limitava la portata ai soli scopi pratici. In questo lavoro si avanza l’ipotesi che questa non sia stata l’unica causa dell’esclusione, individuando i motivi della messa al bando anche nei pregiudizi negativi di cui la fotografia era gravata e nel loro persistere nel contesto culturale italiano. Tali pregiudizi derivavano dai suoi due principali contesti di impiego: il primo, “commerciale”, documentava rovine storiche e monumenti di interesse culturale, il secondo, la fotografia artistica, era caratterizzato dalla ricerca dell’evasione dalla realtà, o escapismo, nella riproduzione di scene idilliche dallo stile classico.

    In primo luogo si esegue un’analisi dei quattro generi esaminati ad oggi dalla letteratura accademica per determinare le caratteristiche preponderanti della fotografia italiana dell’epoca: “fotografia di viaggio”, “fotografia architettonica”, “fotografia artistica”, “fotografi amatoriali”. Si procede poi ad esaminarne gli aspetti più evidenti, quello legato alla fruizione dei beni culturali e l’escapismo, approfondendo il pensiero dei pittori futuristi e confrontando i principi dei manifesti futuristi con l’essenza della fotografia storica ed escapista. Questo esame comparativo delle fonti suggerisce in primo luogo che la fotografia del patrimonio culturale, legata all’ambito commerciale, limitandosi a ritrarre soggetti di un passato remoto che i futuristi non apprezzavano, non poteva che essere denigrata; e, in secondo luogo, che la prospettiva futurista non poteva approvare che la fotografia non solo si limitasse all’ambito documentale, ma fosse anche oggetto di commercializzazione in Italia e all’estero. Un ulteriore fattore a sostegno di questa interpretazione è rappresentato dell’opposizione dei futuristi alla diffusione di un’immagine dell’Italia superata, “una terra dei morti” che la fotografia commerciale all’estero promuoveva: la popolarità e convenzionalità di cui godeva portò i futuristi a rinnegare la fotografia nella sua interezza. In sintesi, dunque, è possibile ipotizzare che alla radice del rifiuto siano i caratteri della fotografia storica. Dall’altra parte, l’analisi della fotografia artistica o escapista mostra una glorificazione del “quadro antico”, un’emulazione di esso che si avvale frequentemente di “motivi e soggetti già sfruttati”: questo le impediva perciò di ritrarre la “vita contemporanea” e la rendeva agli occhi dei pittori futuristi oggetto di critica.

    Queste caratteristiche, che, nell’Italia degli inizi del XX secolo, inducevano le masse

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