Studi Italici
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Volume 72
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  • MAYUKO FUKAKUSA
    2022 Volume 72 Pages 1-23
    Published: 2022
    Released on J-STAGE: November 09, 2022
    JOURNAL FREE ACCESS

    Il Decameron pubblicato nel 1527 dalla tipografia dei Giunti è un’edizione di altissima qualità testuale. Essa dimostra le capacità dei curatori che avevano a disposizione numerosi manoscritti e che, evitando di fare emendazioni congetturali, riuscirono a ricostruire l’opera del Boccaccio in una forma il più possibile vicina all’originale. Questa edizione, infatti, viene considerata naturale conseguenza dello sviluppo della filologia volgare fiorentina.

    La qualità del Decameron del 1527 risulta notevole soprattutto quando tale versione viene paragonata al Decameron pubblicato solo undici anni prima, nel 1516, dagli stessi Giunti. Il confronto fatto per i capitoli 38-39 dell’Introduzione alla quarta giornata ci mostra che il testo dell’edizione del 1527 è molto simile sia al codice Mannelli sia all’autografo berlinese Hamilton 90, mentre la veste linguistica del testo dell’edizione del 1516 è fiorentino-quattrocentesca, poiché in essa si riscontrano alcune forme caratteristiche del fiorentino argenteo.

    L’espressione “fiorentino argenteo”, coniata nell’intervento di Arrigo Castellani, Italiano e fiorentino argenteo, si riferisce alla varietà linguistica fiorentina del XV e del XVI secolo. Se il fiorentino aureo del Trecento fu il modello del volgare per Pietro Bembo, è quello argenteo che gli intellettuali fiorentini come Machiavelli ritenevano fosse il miglior volgare.

    A partire da questa classificazione di “argenteo” per il Decameron del 1516 e di “aureo” per la versione del 1527, l’autrice si propone di analizzare la lingua delle altre edizioni giuntine: tra le opere minori del Boccaccio pubblicate tra il 1516 e il 1527 (Laberinto d’amore con una epistola a Messer Pino de’ Rossi confortatoria del 1516, Fiammetta del 1517, Ninfale fiesolano del 1518 e Ameto del 1521), confrontiamo Fiammetta e Ameto con le stampe di cui i curatori si sarebbero serviti come testo base, ossia l’incunabolo di Fiammetta sprovvisto di note tipografiche e l’Ameto curato da Gerolamo Claricio e pubblicato a Milano nel 1520. Attraverso l’analisi delle quattro edizioni, l’autrice intende mettere a fuoco gli aspetti che caratterizzano la mutazione della lingua fiorentina avvenuta tra il Trecento e il Quattrocento: oggetto della nostra indagine sono i suoni e le forme elencati da Paola Manni in Ricerche sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino quattrocentesco e l’ordine dei pronomi atoni (il tipo <me lo>> o il tipo <lo mi>).

    Tale analisi ci consente di osservare che molte forme caratteristiche del fiorentino argenteo riscontrabili sui testi base, nelle giuntine vengono sostituite con quelle del fiorentino aureo. Ciò significa che i curatori dei Giunti cercarono di eliminare numerosi tratti quattrocenteschi per restituire la vera lingua del Boccaccio alle sue opere. Quest’opera di revisione ebbe inizio già dalla seconda metà del secondo decennio del Cinquecento, quando Bernardo Giunti cominciò a partecipare attivamente all’impresa di famiglia.

    Che cosa avrebbe portato i curatori a fare un salto di qualità così netto? Qual era la loro opinione riguardo alla questione della lingua? A Firenze era radicata la posizione fiorentinista, tuttavia è risaputa la presenza di giovani letterati influenzati da Gian Giorgio Trissino. E si può affermare che gli ideali del vicentino fossero condivisi anche da Bernardo Giunti. In occasione della pubblicazione dell’Arcadia del Sannazaro, Bernardo con la lettera dedicata al suo “Altissimo Poeta” (presumibilmente Cristofano Fiorentino, canterino conosciuto a Firenze con il soprannome “l’Altissimo”) riconobbe il contributo del Trissino alla riscoperta e alla promozione della lingua comune. Bernardo voleva che le opere del destinatario, ma probabilmente anche quelle degli altri fiorentini contemporanei, fossero apprezzate in tutta Italia.

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  • ATSUSHI DOHI
    2022 Volume 72 Pages 25-45
    Published: 2022
    Released on J-STAGE: November 09, 2022
    JOURNAL FREE ACCESS

    Il presente studio intende esaminare le caratteristiche semantiche e pragmatiche della particella mica in italiano. Mica appare in vari tipi di frase e svolge funzioni estremamente astratte, che sono spesso descritte come rinforzo della negazione. Guglielmo Cinque fa notare in uno studio condotto nel 1976 che questa descrizione non è sufficiente, mostrando che mica appare in contesti diversi da quelli in cui appaiono gli avverbi negativi come affatto, per niente ecc. Secondo Cinque, infatti, l’elemento in questione ha un significato “puramente presupposizionale”, in quanto, aggiungendo mica, il parlante presuppone un’aspettativa di qualcuno riguardo alla proposizione, ovvero l’evento descritto dalla frase (si consideri ad esempio “Non fa mica freddo, qua dentro”).

    Come alcuni studiosi fanno notare, quest’analisi di Cinque, anche se ampiamente accettata, non riesce a spiegare la funzione che la particella mica ha in tutti i contesti che la ammettono. Esistono infatti casi in cui la presenza di mica è perfettamente accettabile senza nessun tipo di aspettativa verso la proposizione (ad esempio “Non è mica morto”). L’analisi di Cinque, nonostante riesca a intuire che mica abbia a che fare con il contesto, non dà spiegazioni in merito a questi casi. Infatti, la denotazione intrinseca di mica (ovvero un significato comune a tutti i suoi usi) non è ancora stata individuata.

    Il presente studio adotta l’approccio della teoria della pertinenza (relevance theory), dove si afferma che la comprensione dell’enunciato non avviene in base a ciò che lo rende vero, ma in base a ciò che lo rende pertinente. Definita in termini di effetti cognitivi (cognitive effects) e di sforzo di elaborazione (processing effort), la pertinenza di un enunciato dipende dagli effetti contestuali (contextual effects): la derivazione di un’ipotesi nuova, nonché il rinforzo e l’eliminazione di un’ipotesi esistente, dove l’ipotesi è un contenuto che un individuo crede vero. L’interlocutore di un enunciato, dunque, comprende quest’ultimo partendo dal presupposto che sia pertinente, in quanto si ottiene uno degli effetti appena elencati.

    Applicando questo approccio cognitivo alla comprensione dell’enunciato, il presente studio mette in evidenza prima di tutto che i casi in cui manca l’aspettativa sono in realtà casi che riguardano il fenomeno di premesse implicitate (implicated premises): il parlante intende comunicare, implicitamente, non solo le conclusioni da trarre, ma anche le premesse per trarre tali conclusioni. Secondo l’analisi proposta nel presente lavoro, la particella mica non contribuisce direttamente a questo processo. La funzione di mica in tutti i suoi usi è quella di segnalare che la pertinenza dell’enunciato sta nell’eliminazione di un’ipotesi esistente. Nei casi studiati da Cinque (ad esempio “Non fa mica freddo, qua dentro”), l’ipotesi eliminata coincide con la controparte positiva della proposizione (“Fa freddo qua dentro”). In altri casi (come “Non è mica morto”), invece, l’ipotesi da eliminare va individuata tramite inferenza pragmatica e di conseguenza può essere completamente diversa dalla proposizione (come ad esempio “l’interlocutore deve prendere 15 giorni di permesso”). In tutti i casi, mica aumenta la probabilità che l’interlocutore arrivi alle interpretazioni intese dal parlante, aiutandolo a comprendere l’enunciato, così che la sua pertinenza stia nell’eliminare un’ipotesi esistente.

    L’analisi proposta ha un vantaggio rispetto a quelle svolte finora in seguito a quella di Cinque riguardo al trattamento della modalità. Mica, infatti, ha natura modale, in quanto non contribuisce alla proposizione, ma alla modalità, ovvero l’atteggiamento da parte del parlante nei confronti della proposizione. Negli studi svolti sinora, infatti, mica è spesso considerato come una particella

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  • ——SULLA BASE DI UN PARAGONE CON IL FERMO E LUCIA——
    MASAKO YAMAMURO
    2022 Volume 72 Pages 47-66
    Published: 2022
    Released on J-STAGE: November 09, 2022
    JOURNAL FREE ACCESS

    La prima stesura dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni si intitola Fermo e Lucia. In questa versione alcuni personaggi presentano nomi diversi rispetto a quelli dei Promessi Sposi. Uno di essi, il Conte del Sagrato del Fermo e Lucia, nei Promessi sposi diventa l’innominato. Nella trama dell’opera, il Conte / l’innominato è il personaggio che viene incaricato da Don Rodrigo di rapire Lucia, ma in seguito a un amaro pentimento, si converte e la libera.

    L’autrice del presente articolo si propone di analizzare e discutere il modo in cui Manzoni modifica la descrizione del Conte / l’innominato e la sua conversione. Il Fermo e Lucia e i Promessi sposi presentano frasi ed espressioni simili, perciò dobbiamo domandarci quali siano le differenze fra l’innominato e il Conte.

    Lo studioso Luigi Russo (1967) dimostra come l’innominato sperimenti un angoscioso andirivieni, e dopo una crisi di coscienza compia la sua conversione. Tuttavia, il Conte nel Fermo e Lucia non vive tale crisi. L’autrice in linea di massima approva il parere di Russo, ma nel presente articolo, attraverso un’analisi dei turbamenti d’animo e delle azioni dell’innominato e un confronto con la sua controparte nel Fermo e Lucia, intende esporre altri motivi a sostegno di questa tesi. Prima ancora di vedere Lucia rapita, l’innominato comincia il suo cammino verso la conversione. Inizia a dubitare della sua promessa a Don Rodrigo. Questa idea lo conduce alla consapevolezza delle sue scelleratezze, della vecchiaia, della morte e di Dio. Tuttavia l’innominato cerca di scacciare i suoi dubbi nel profondo della sua coscienza, cercando di nascondere la sua inquietudine; ciò lo porta a dare esecuzione al rapimento.

    L’innominato esita a ricevere Lucia al suo castello mentre attende alla finestra l’arrivo della sua carrozza. Tuttavia questa scena non è presente nel Fermo e Lucia, dove il Conte non pensa affatto di venire meno alla promessa del rapimento. Il Conte si ricorda delle sue antiche scelleratezze e chiede consiglio a un complice: Egidio.

    Sia nel Fermo e Lucia che nei Promessi sposi il Conte / l’innominato fa stare Lucia nel suo castello perché l’esecutore del rapimento confessa al suo padrone la sua compassione verso Lucia e il signore si interessa a lei, decidendo di andare a incontrarla. Lucia implora con parole accorate il Conte / l’innominato di liberarla subito. Lucia afferma che anche l’innominato ha “compassione” e “buon cuore”, parole che non compaiono nella scena corrispondente del Fermo e Lucia. Perciò il Conte / l’innominato si impegna a liberare Lucia il giorno seguente.

    Dopo il colloquio con Lucia, il Conte / l’innominato passa una notte insonne, tuttavia riguardo a questo punto ci sono molte differenze tra le due versioni. Solo nei Promessi sposi viene descritta la riflessione introspettiva dell’innominato. L’innominato, a differenza del Conte, si trova a ripensare a tutta la sua vita, giungendo alla negazione di sé stesso, e trovando un “nuovo lui”.

    Nello svolgimento narrativo, il Conte / l’innominato decide di fare visita al cardinale Borromeo, dopo aver visto e sentito l’allegria della gente che voleva incontrarlo. Nel colloquio con il cardinale, l’accoglienza all’uomo che si stava convertendo è più calorosa nei Promessi sposi che nel Fermo e Lucia. È degno di nota che l’innominato proferisca in questa occasione le parole “gioia” e “refrigerio”.

    Dopo la conversione, il Conte / l’innominato si presenta alla gente come un “nuovo sé stesso”. Nel Fermo e Lucia questa scena vede il Conte in visita alla casa di Lucia per scusarsi con compunzione (questa scena non viene ripresa nei Promessi sposi perché tale compunzione non si confà all’innominato, convertito convinto e solenne). Invece, nei Promessi sposi, usando il discorso diretto, l’innominato dichiara davanti ai

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  • —FU SEMPLICEMENTE UN “NEGRO” (SCHIAVO) DEL PADRE O IL VERO AUTORE DEI SOGGETTI?—
    YASUHIRO SAITO
    2022 Volume 72 Pages 67-92
    Published: 2022
    Released on J-STAGE: November 09, 2022
    JOURNAL FREE ACCESS

    Nel presente articolo vengono trattate le vicende di una causa civile in cui Stefano Pirandello, figlio di Luigi, fu accusato di essere il vero autore di un soggetto del padre: Il figlio dell’uomo cattivo, che fu acquistato dall’imprenditore G. Manenti nel 1936 in qualità di “soggetto originale dell’Accademico Luigi Pirandello” poco prima della morte del premio Nobel. Tuttavia, dopo la sua scomparsa l’imprenditore denunciò il soggetto come “apocrifo” indicando Stefano come il suo vero autore. Per controbattere l’accusa, Stefano presentò un memoriale in cui venivano indicate dettagliatamente le modalità di svolgimento di questo tipo di lavoro, nonché le parti della trama modificate per interferenza censoriale del governo fascista e del Sant’Uffizio. Tale vertenza si concluse con una transazione in cui Stefano fu assolto dall’accusa a lui rivolta.

    Questo Memoriale di Stefano ci rivela chiaramente il funzionamento dell’officina creativa di Pirandello: lui parla liberamente agli amici intimi delle sue idee in merito a vari soggetti, accettando volentieri le loro proposte per migliorarli, mentre Stefano, il suo “negro” (inteso come “schiavo”), prende nota di tutto quello che gli detta il padre, e allo stesso tempo cerca di colmare le lacune dei racconti inventando nuovi episodi. Egli stesso nel suo Memoriale confessa quanto segue: “Accanto a Pirandello, chi sa come, ci sentiamo tutti bravi a inventare. Bravi come lui. Bravi anche più di lui. Chi sa come, poi, senza Pirandello, siamo tutti un po’ meno bravi. […] Il merito di questo fervore inventivo restava per intero alla fantasia creativa […] che era la fantasia di Pirandello”.

    Il “negro” Stefano collabora volentieri con il padrone posseduto dal suo demone creativo. L’editore Bompiani ci fornisce una spiegazione convincente in merito a questa strana relazione fra i due: “Il rapporto di Stefano col padre era del tutto fisiologico: Stefano aveva un cervello simile, ma critico, e Pirandello se ne serviva come di un proprio organo.” (da Il mestiere dell’editore). Una volta completata la stesura, Pirandello regolarmente considerava come proprio tutto ciò che veniva scritto da Stefano senza apportare nessuna modifica al testo.

    Questo atteggiamento potrebbe essere riconducibile al fenomeno del “padre-padrone” specifico del Meridione; Stefano dedica tutto sé stesso al padre, lavorando come un “negro” e perfino tramutandosi nel coautore del padre, alimenta la sua creatività anche dal di dentro.

    Tuttavia, quando il padre gli impose di pubblicare un intero scenario a nome suo per ripicca nei confronti di un ordine del governo fascista—è il caso dell’Acciaio—, il figlio non poté sottrarsi a un forte rimorso di coscienza, e giungendo perfino a deridere i critici incapaci di distinguere le differenze di stile, confessò in modo autolesionistico di esserne stato il vero autore.

    Da questo Memoriale rivelatore del funzionamento dell“officina Pirandello” si può intuire che il figlio non è mai riuscito a liberarsi dalle catene del padre, nemmeno dopo la morte di quest’ultimo, e visse come un buon figlio docile covando un sentimento ambivalente di amore-odio nei confronti del “padre-padrone”. In ultima analisi Stefano si sentiva anche lui come il figlio dell’uomo cattivo.

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  • —ATTRAVERSO L’ANALISI DEL GALLISMO NEL DON GIOVANNI IN SICILIA—
    KIMIKO KOSHIMAE
    2022 Volume 72 Pages 93-115
    Published: 2022
    Released on J-STAGE: November 09, 2022
    JOURNAL FREE ACCESS

    Vitaliano Brancati (1907-1954) scrisse il romanzo Don Giovanni in Sicilia nel 1940 sotto la dittatura di Mussolini e lo pubblicò l’anno successivo. Quest’opera fu scritta subito dopo Gli anni perduti, un’opera quasi autobiografica, in cui Brancati parla di come la sua scelta di aver aderito al fascismo all’inizio del Ventennio fosse sbagliata, ed è la prima delle tre opere che verranno chiamate più tardi “la trilogia del gallismo” (il termine “gallismo” fu coniato da Brancati stesso per designare satiricamente la vanità erotica degli uomini in genere e dei siciliani in particolare, quel loro sentirsi e vantarsi, «bravi nelle faccende d’amore»). Il Don Giovanni in Sicilia è la prima opera in cui il tema del gallismo viene esplicitato ed è considerata di grande importanza.

    L’autrice del presente articolo si propone di rivalutare il Don Giovanni in Sicilia riesaminando le caratteristiche peculiari di quest’opera e del suo autore. L’analisi viene condotta con particolare attenzione sul gallismo rappresentato nell’opera, e attraverso essa si intende compiere una rilettura dell’opera, sulla base dell’intero percorso critico e delle ricerche svolte fino ad oggi. Questa rilettura ha come obiettivo la rivalutazione dell’opera non solo come un eccellente classico, scritto ormai molti anni fa, ma anche come un’opera che presenta una “modernità” che potrebbe risultare interessante agli occhi del lettore di oggi, poiché rende possibile tracciare un percorso in cui si rispecchiano atmosfere e sentimenti di ogni periodo, permettendo di esaminare l’opera sotto vari profili.

    L’analisi dell’opera inizialmente spazia dallo sguardo ampio del percorso critico e delle ricerche sinora svolte sul gallismo alle riflessioni sociologiche e culturali in merito ad esso e successivamente si incentra sulla rappresentazione di questo elemento nell’opera di Brancati, cercando di focalizzarsi non solo sui personaggi maschili, ma anche su quelli femminili, illustrando i motivi per cui il gallismo dovrebbe essere sempre discusso all’interno di un contesto comprendente entrambi i sessi.

    Nel primo capitolo l’autrice illustra l’intero percorso critico e il suo sviluppo dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’opera fino a oggi. Negli anni ’40 e ’50 la critica tendeva a mostrare interesse solo nei confronti di opere non fasciste e a considerare il gallismo metafora del fascismo. Tuttavia, dopo la morte di Brancati (1954), la critica iniziò a prendere in esame diverse sue opere, incluse quelle teatrali. In seguito, a partire dagli anni ’60, quando dalla trilogia del gallismo (Don Giovanni in Sicilia, Il bell’Antonio, e Paolo il caldo) furono tratti film, il discorso critico si ampliò ulteriormente. Negli anni ’70, un famoso saggio di Leonardo Sciascia sul gallismo brancatiano (Don Giovanni a Catania, in La corda pazza: 1970) riportò l’attenzione della critica sul tema del gallismo e su Brancati. Negli ultimi tre decenni, una nuova, positiva interpretazione critica tende a esaltare la modernità del Don Giovanni in Sicilia.

    Nel secondo capitolo l’autrice dà una definizione del termine “gallismo”, inquadrando il protagonista principale, Giovanni Percolla, come esempio di “gallo”; descrive l’habitus dei galli (il desiderio delle donne, le loro fantasticherie maniacali, ed i loro racconti, veri e falsi, sulle esperienze vissute) e introduce il legame esistente tra il gallismo e il fatto di essere uomini siciliani.

    Nel terzo capitolo l’autrice analizza i personaggi dividendoli in quattro categorie: i galli siciliani, Giovanni come gallo volontario e involontario, le sorelle di Giovanni come galline che dedicano la loro vita al gallo, e Ninetta, la moglie di Giovanni, come “donna nuova” che induce Giovanni ad abbandonare il gallismo. L’originalità del presente articolo sta nell’analisi

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