Studi Italici
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Volume 69
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  • SATOKO ISHIDA
    2019 Volume 69 Pages 1-21
    Published: 2019
    Released on J-STAGE: January 23, 2021
    JOURNAL FREE ACCESS

    La figura di Pinocchio, nei suoi oltre 130 anni di vita, è stata declinata in più ambiti culturali fino a diventare un’icona contemporanea. L’intensità di questa proliferazione ha in qualche modo rinnovato gli schemi culturali, lanciando, di fatto, un nuovo genere multimediale denominato Pinocchiate, produzioni nate in campi diversi, ma sempre ispirate alla storia del burattino; esempi di genere moderno dotato di caratteri eterogenei, elemento del resto riscontrabile nello stesso Pinocchio.

    L’eterogeneità del corpo è una caratteristica della cultura visuale che si manifesta esprimendosi attraverso il suo medium per eccellenza: il cinema. Ci si propone qui di esaminare l’eterogeneità del corpo di Pinocchio quale punto di partenza del fenomeno delle Pinocchiate muovendo dall’indagine della corporeità del burattino attraverso le sue rappresentazioni sia ne Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi che nel film Pinocchio (1911), prima trasposizione cinematografica del romanzo.

    Pinocchio è un corpo eterogeneo simile ad altri apparsi intorno agli inizi del Novecento, come Centauro richiamato da Filippo Tommaso Marinetti in Fondazione e Manifesto del Futurismo (1909) o Perelà, uomo di fumo ne Il Codice di Perelà (1911) di Aldo Palazzeschi, entrambi immaginati come corpi nuovi che superano il corpo umano, carnale e dunque limitato. Pinocchio, burattino di legno, non si distingue solo per l’estrema agilità dei movimenti, ma è dotato anche di emozioni e intelligenza, seppur nella propria materia lignea. La novità del corpo è insita in tale struttura multistrato, «struttura di compromesso», come la definisce Asor Rosa: caratteristica che consente al burattino di trasformarsi da semplice pezzo di legno in burattino, da burattino in asino e infine in bambino vero. Pinocchio dà forma così a un’unità in movimento pervasa da una continua tensione dinamica, giungendo a rappresentare nella propria storia la metamorfosi tipica dell’età contemporanea. Una metamorfosi che non si limita al romanzo, ma si ripercuote anche al di fuori di esso.

    Per quanto protagonista di uno dei libri più tradotti al mondo, la popolarità del personaggio Pinocchio non è esclusivamente condizionata dal romanzo originale: l’immaginario generale legato a questa figura nasce anche da altre versioni derivate a posteriori, le cosiddette Pinocchiate, produzioni ispirate al burattino che si sono diffuse in più ambiti: tra questi la letteratura, i fumetti, il teatro e il cinema. Le Pinocchiate si originano nella difficoltà di rappresentare il corpo plurivalente: questa è la chiave della problematicità che induce variazioni nella modalità di rappresentazione del burattino, intorno al quale l’immaginazione continua a svilupparsi. Non è l’inconfondibile corpo di legno che identifica Pinocchio per il suo aspetto, ma piuttosto la sua immagine: corpo aperto a ogni interpretazione e in continua trasformazione a seconda degli occhi di chi lo guarda.

    Pinocchio, corpo composto di una materia insolita, s’incarna oscillando con aspetto labile tra il reale e l’irreale. Proprio nel periodo in cui Collodi concepiva il suo personaggio, si andava ultimando l’apparecchio capace di riprodurre corpi altrettanto evocativi in una nuova arte: il cinema. Il corpo cinematografico è fatto di luce, materia anormale, ma che appare come realtà. In questo caso tale caratteristica è intrinseca alla struttura dell’apparecchio stesso: il cinema è infatti realizzato grazie alla congiunzione di due principali tecniche: una che tende a riprodurre la realtà (come la fotografia) e l’altra che produce illusione (come il fenachistoscopio). Non è quindi altro che uno strumento che riproduce la realtà attraverso l’illusione e la sua contraddizione è connaturata alle sue immagini.

    Il corpo di Pinocchio e il corpo cinematografico,

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  • YOSUKE SHIMODA
    2019 Volume 69 Pages 23-48
    Published: 2019
    Released on J-STAGE: January 23, 2021
    JOURNAL FREE ACCESS

    «Del Manzoni siamo perfettamente d’accordo: eccellente pittore, benché fiammingo» scrisse in riferimento ai Promessi sposi all’indomani della pubblicazione Pietro Giordani, nel settembre del 1827, in una lettera all’amico Francesco Testa. Un paragone simile, ma con connotazioni positive, si trova in una lettera di Antonio Cesari: «nel colore, nella forza, nell’espressione tuttavia vale assai: nelle pitturette fiamminghe è maraviglioso; come altresì nel toccare le passioni, gli affetti e movimenti tutti del cuore, fino a’ più minuti, mi par gran maestro». Questi commenti permettono di collocare l’opera manzoniana nel contesto della storia letteraria europea del primo Ottocento, periodo in cui i critici dell’epoca paragonarono allo stesso modo romanzieri di altri Paesi come Jane Austen, Walter Scott, Honoré de Balzac ed altri a pittori fiamminghi o olandesi (senza prestare particolare attenzione ai differenti caratteri delle due scuole). I romanzi di questi autori, pur nella loro diversità, a confronto con quelli dei secoli precedenti, hanno però ad accomunarli nuove caratteristiche, e sono queste ad indurre la critica coeva a illustrarne i comuni riferimenti alla pittura olandese o fiamminga, categoria che tuttavia include anch’essa un gran numero di opere molto diverse tra loro.

    Muovendo da questa “etichetta” attribuita a molti e diversi romanzi del primo Ottocento, questo lavoro intende in primo luogo confermare la presenza, nel romanzo manzoniano, di numerosi aspetti presenti nei romanzi europei cosiddetti “realisti”. Per quanto questa affermazione possa sembrare banale, è stata tradizionalmente impiegata quasi esclusivamente in senso retrospettivo, attraverso cioè analisi comparative con i romanzi francesi, considerati i prototipi del “realismo”, palesatosi in seguito all’enorme successo dei romanzi scottiani e dopo I promessi sposi. Senza limitarsi a questo primo aspetto, però, questo esame cerca di individuare anche le caratteristiche particolari che distinguono l’opera manzoniana dagli altri romanzi ottocenteschi.

    In primo luogo, attraverso lo studio di R. B. Yeazell sul rapporto tra la pittura olandese e il romanzo realista, Art of everyday: Dutch painting and the realist novel (2008), ed esaminando discorsi e recensioni che mettevano in relazione autori come Austin, Scott, e Balzac con i pittori olandesi, si procede all’analisi di modi e caratteristiche di cui si avvalse la critica in questo confronto. L’accostamento non può, comunque, essere considerato semplicemente una felice trovata dei critici: corretta è infatti l’osservazione di Yeazell che alcuni autori abbiano riprodotto intenzionalmente nella prosa lo stile descrittivo degli olandesi. La posizione manzoniana sembra però in qualche misura discostarsi da questa tendenza: se da un lato lo scrittore non si è mai mostrato come conoscitore d’arte, dall’altro è noto l’impegno con cui si è dedicato all’ottenimento di una documentazione esatta e minuziosa che gli consentisse una resa quanto più storicamente realistica della rappresentazione dell’Italia settentrionale del passato. Il romanzo, inoltre, è ambientato nel Seicento, ovvero il secolo d’oro della pittura olandese, in cui spiccano anche altrove pittori “naturalisti” come Velázquez e Caravaggio.

    Il susseguente richiamo al recente lavoro di Daniela Brogi (Romanzo per gli occhi, 2018) intende evidenziare il profondo rapporto individuabile tra I promessi sposi e i dipinti caravaggeschi (soprattutto quelli che rappresentano temi religiosi) nella figura del cardinale Federico Borromeo e della cultura controriformistica da lui impersonata. Qualora nel romanzo manzoniano siano rintracciabili evocazioni delle opere caravaggesche, certamente questo ne può rappresentare un carattere distintivo rispetto agli altri romanzi europei del primo Ottocento.

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  • IL MODELLO DEL CONVIVIO
    HITOSHI HOSHINO
    2019 Volume 69 Pages 49-72
    Published: 2019
    Released on J-STAGE: January 23, 2021
    JOURNAL FREE ACCESS

    Benché la pubblicazione dei saggi di Bruno Nardi Dal «Convivio» alla «Commedia» abbia a lungo relegato il Convivio al ruolo di opera minore e intermedia utile all’interpretazione del Poema, oggi gli studiosi tornano a guardare quest’opera con rinnovata attenzione e ad interrogarsi sul progetto che l’ha portata alla luce. In questa direzione si muove anche la presente indagine, volta ad individuare fonti e modelli dell’opera, da Brunetto Latini a Cicerone.

    Dante, nel noto capitolo (Conv. II, xii) in cui espone la propria formazione culturale fiorentina dopo la morte di Beatrice, indica due testi: il De consolatione Philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone: mentre sul primo, racconto autobiografico in forma di prosimetro, non vi sono dubbi, risulta più difficile inquadrare il peso del dialogo ciceroniano nell’elaborazione del Convivio. Per quest’opera, infatti, è stato piuttosto indicato come modello il Tresor di ser Brunetto, che di Cicerone fu volgarizzatore e commentatore a Firenze.

    Brunetto, nella Commedia, affida a Dante il proprio lavoro con le parole «Sieti raccomandato il mio Tesoro» (Inf. XV, 119): segno dell’esplicito riconoscimento dell’opera enciclopedica del maestro come uno dei testi di riferimento da parte dell’allievo. Per quanto siano almeno sette i casi in cui il Convivio mostra riferimenti alla Rettorica, traduzione parziale del De inventione ciceroniano con ampio commento, e ben venticinque al Tresor, ciò non consente di definire il Tresor quale modello del Convivio. La leggerezza e la gioia che traspaiono dalla narrazione del Tresor (l’autore paragona le virtù cardinali con gioielli in Tres. II, i, 3), non si riflettono nella gravità e scientificità ricercata dal testo di Dante, e la lingua del Tresor, il francese, è lontana da quella dell’allievo.

    Simone Marchesi (2001) ha individuato nel primo trattato del Convivio (Conv. I, xii, 10) la citazione di un passo del Tresor (Tres. II, xci, 2, che è in realtà una libera traduzione del ciceroniano De Officiis II, xi, 40) senza evidenziarne l’eco brunettiano, citato tuttavia esplicitamente dal poeta nel quarto trattato. La ricezione dantesca di Cicerone appare aver acquisito progressivamente peso anche nel processo di composizione del Convivio, il che induce a considerare l’opportunità di indagare l’opera ciceroniana come fonte e modello dell’opera.

    Nel Convivio Cicerone è esplicitamente citato ventuno volte. Dante dichiara di aver letto a Firenze il De amicitia, citandolo nel primo trattato quasi letteralmente; il De senectute, che affiancava il De amicitia nella didattica medievale, è citato una volta nel secondo trattato e sette nel quarto; del De Officiis invece, come già osservato, non si rilevano tracce nei primi tre trattati, ma nel quarto ne compaiono sette citazioni.

    Il testo che si intende sottoporre all’attenzione qui è il De finibus bonorum et malorum, opera citata da Dante prima di tutti gli altri testi ciceroniani. Al De finibus, opera filosofica corposa e distante da opuscoli didattici quali il De amicitia o il De senectute, il poeta si ispira in Conv. I, xi, 14, allo scopo di giustificare la scelta linguistica del volgare, richiamandosi al passo ciceroniano (Fin. I, [ii], 4) che difende la legittimità dell’uso del latino per la disquisizione filosofica. Esaminando la diffusione dei manoscritti ciceroniani nell’Italia medievale, L. D. Reynolds (1992) ha messo in luce come il De finibus fosse giunto a Padova a fine Duecento e da lì avesse preso a circolare nel Nord della penisola. L’esiliato Alighieri viene in contatto con quest’opera, ne legge l’inizio del primo volume e lo cita nel primo trattato del Convivio, illustrando estesamente (dal cap. v al xiii) la scelta del volgare per il commento delle sue canzoni filosofiche. Potrebbe dunque essere proprio il

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  • ATSUSHI DOHI
    2019 Volume 69 Pages 73-93
    Published: 2019
    Released on J-STAGE: January 23, 2021
    JOURNAL FREE ACCESS
  • KIMIKO KOSHIMAE
    2019 Volume 69 Pages 95-117
    Published: 2019
    Released on J-STAGE: January 23, 2021
    JOURNAL FREE ACCESS

    Prima di dedicarsi alla scrittura, Lalla Romano (1906-2001) aveva ricevuto una formazione pittorica dai tre artisti Giovanni Guarlotti, Nicola Galante e Felice Casorati ed iniziato la sua attività artistica come pittrice. Questa carriera pittorica, però, proseguita fino al 1946, viene improvvisamente interrotta e in seguito riportata alla luce grazie al contributo del dottor Antonio Ria, intorno alla metà degli anni Novanta, a distanza di quasi mezzo secolo.

    Le motivazioni che potrebbero render conto di questa improvvisa interruzione sono molteplici: le difficoltà legate al periodo bellico e postbellico, il trasferimento in un’altra città e certo anche la ricerca di equilibrio fra carriera artistica e maternità. Lalla Romano, tuttavia, non sembra averle mai esplicitate. In questo lavoro si propongono ipotesi che ne possano rendere conto, evidenziando elementi che potrebbero offrire una più adeguata interpretazione non solo della produzione pittorica, ma anche quella letteraria ed estetica dell’artista.

    Le descrizioni presenti nelle opere letterarie dell’artista spesso evocano le pennellate di un pittore intento a rappresentare una scena concentrandosi sulla cura dei dettagli. La possibilità che l’esperienza pittorica si rifletta nella scrittura dell’artista permette di chiarire, da una parte, certo la portata della sensibilità pittorica sulla scrittura, ma anche, dall’altra, le ragioni che determinarono l’interruzione della carriera pittorica stessa.

    L’esame della descrizione del paesaggio e dei personaggi in Una giovinezza inventata (1979), opera autobiografica per eccellenza che narra gli anni da apprendista pittrice (1924-1929), ne mostra i caratteri di Bildungsroman, esplicitati dall’innamoramento della giovane Lalla e la delusione sublimata dall’arte: elemento, questo, che sembra rappresentare il tramite della vera e propria dichiarazione artistica della scrittrice. L’opera illustra il difficile e talvolta doloroso percorso nelle modalità di rappresentazione dell’immagine, che muove dalla concretezza all’astrattezza e che trova infine lo strumento più consono nella scrittura.

    Elemento fondamentale dell’espressione artistica tanto del mezzo pittorico quanto di quello letterario è il dato naturalistico; l’emotività che sgorga di fronte a figure e oggetti prende vita nella caratterizzazione stilistica e nella costruzione formale, mentre si fa marcata, nei momenti successivi del racconto, l’insistenza sull’articolazione che va instaurandosi fra emozione, paesaggio e disposizione letteraria.

    La correlazione tra pittura e scrittura, che rappresenta uno degli aspetti più interessanti della produzione dell’artista, è stata al centro del Convegno Intorno a Lalla Romano. Scrittura e pittura, svoltosi a Milano nel 1994. Nell’elaborazione del presente studio sono stati fondamentali in particolare due contributi presentati al convegno: il lavoro di Bossaglia, concentrato sull’analisi delle opere pittoriche, e quello di Fossati, analisi dell’emotività dell’io-protagonista di fronte al paesaggio narrato. Questi lavori permettono di sostenere l’ipotesi che la pittrice abbia ceduto alla scrittura lo scettro della propria produzione artistica nel momento in cui l’arte astratta, sulla soglia dell’avanguardismo, si allontana dal rapporto con un referente esterno.

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