Studi Italici
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  • LORENZO AMATO
    2024 Volume 74 Pages 1-26
    Published: 2024
    Released on J-STAGE: November 13, 2024
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  • ATSUSHI DOHI
    2024 Volume 74 Pages 27-48
    Published: 2024
    Released on J-STAGE: November 13, 2024
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    Il presente contributo intende esaminare le definizioni di frase adottate nelle grammatiche italiane, mettendole in relazione con le teorie linguistiche sottostanti.

    Mentre l’analisi di una lingua parte quasi sempre dall’unità di analisi piuttosto intuitiva della frase, risulta complicato definire quest’ultima specificando le regole e le conoscenze alla base di questa intuizione. Due proposte largamente diffuse tra le grammatiche italiane definiscono la frase come segue:

     

    a) l’unità minima di comunicazione dotata di senso compiuto.

    b) l’unità massima in cui vigono delle relazioni di costruzione.

     

    La definizione (a) è di tipo semantico, in quanto si concentra sul significato della frase, mentre la (b) è di tipo sintattico, trattandosi di una descrizione delle relazioni formali tra le parole. Queste definizioni, trovate rispettivamente nella Grammatica Italiana di Luca Serianni con la collaborazione di Alberto Castelvecchi, e nella Grande Grammatica Italiana di Consultazione a cura di Lorenzo Renzi, Anna Cardinaletti e Giampaolo Salvi, rispecchiano teorie linguistiche diverse adottate dalle grammatiche in questione. Serianni si basa sulla linguistica strutturalista europea sotto l’influenza di Ferdinand de Saussure, mentre gli editori e gli autori della Grande Grammatica adottano i principi della grammatica generativa fondata da Noam Chomsky. La grammaticografia italiana è caratterizzata da una costante tensione fra tradizione e innovazione, che si è accentuata a partire dagli anni ’50 e ’60 con l’avvento della linguistica chomskyana che ha iniziato a influenzarla profondamente. In particolare, Chomsky ha ridefinito la linguistica considerando il linguaggio come una funzione innata della mente umana. Le definizioni di frase sopra riportate, dunque, non solo descrivono aspetti diversi della frase, ma rispecchiano anche visioni diverse della grammatica italiana come oggetto di studio.

    Per prima cosa si esamina la nozione di “senso compiuto” su cui si basa la definizione (a), dimostrando che essa può risultare problematica. La definizione semantica, infatti, tende a confondere il significato con le funzioni grammaticali. Inoltre, il “senso compiuto” sembra coincidere con la proposizione vero-condizionale, mentre la sua presenza non è condizione necessaria né sufficiente perché una catena di parole costituisca una frase. Al contrario, la definizione sintattica (b) riesce a evitare i problemi della definizione semantica e permette una descrizione più precisa e generale dei fenomeni linguistici, superando i limiti della grammatica tradizionale.

    Tuttavia, nonostante la teoria moderna della linguistica abbia portato a una nuova comprensione della grammatica come un insieme di regole formali che governano la struttura piuttosto che come un semplice insieme di significati, le grammatiche “moderne” non escludono completamente il significato. Ad esempio, la Grande Grammatica e le grammatiche che la seguono distinguono argomenti/elementi nucleari e circostanziali/elementi extranucleari: una distinzione di natura chiaramente semantica. Le grammatiche moderne, infatti, presuppongono l’esistenza di una struttura semantica che sottostà alla struttura sintattica della frase. Questo divario tra la linguistica moderna e le grammatiche moderne a sua volta rispecchia la distinzione tra I-language ed E-language, ovvero tra la capacità linguistica innata dell’essere umano e la lingua che usiamo per comunicare. La linguistica generativa studia la prima, mentre la grammatica, in base a quest’ultima, descrive la seconda.

    Si prende infine in esame la funzione svolta dalla frase nell’uso linguistico pratico. L’esistenza della frase sembra connessa a una delle proprietà generali della

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  • MOTOAKI ISHII
    2024 Volume 74 Pages 49-74
    Published: 2024
    Released on J-STAGE: November 13, 2024
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    Questo saggio intende indagare il progetto, poi non concretizzatosi, di presentare l’arte moderna italiana negli anni Venti del Novecento a Tokyo, in Giappone, sulla base di numerosi documenti inediti conservati presso l’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale di Roma, integrando e rettificando in parte quanto pubblicato da chi scrive nel 2018, a partire dai soli scritti del politico e militare Ettore Viola. Tali documenti ministeriali sono conservati nella cartella dal titolo “Esposizioni d’arte” in Pos. XIV B/ Dal 1920 al 1929.

    L’idea iniziale del progetto fu dell’allora ambasciatore del Regno d’Italia a Tokyo, Giacomo De Martino, e fu espressa nella sua lettera datata il 14 maggio 1923 indirizzata al Ministro degli Affari Esteri Benito Mussolini. De Martino era stato incoraggiato dalle circolari ministeriali n. 13 (del 22 febbraio 1923) e n. 34 (dell’11 aprile 1923), nonché dalle notizie ricevute dallo scultore italiano Ottilio Pesci, attivo nell’Estremo Oriente, e da Alfonso Gasco, console generale d’Italia a Yokohama. De Martino, volendo emulare le esposizioni già svolte a Tokyo da Francia, Belgio e Germania, propose di organizzare un’esposizione d’arte italiana nella primavera del 1924, assicurandosi però che il valore artistico e il numero delle opere esposte fossero superiori alle altre mostre citate. Tuttavia, il tremendo terremoto del 1 settembre 1923 che mise in ginocchio la zona di Tokyo, rese impossibile la realizzazione della mostra.

    De Martino riprese l’idea della mostra, che era piaciuta a Mussolini, e in una sua lettera del 9 febbraio 1924 la propose per l’autunno dello stesso anno. Quest’idea fu accolta con entusiasmo sia dal Ministero degli Affari Esteri che da quello del Tesoro. L’ambasciatore intendeva esporre anche tre quadri di Giovanni Segantini e dodici sculture di Leonardo Bistolfi che allora facevano parte della collezione di Kōjirō Matsukata, e che sono attualmente conservati presso il Museo Nazionale dell’Arte Occidentale di Tokyo. In seguito, il 12 marzo 1925, il ministro Mussolini nominò il critico d’arte Ugo Ojetti Commissario del Governo per l’Esposizione e l’architetto e critico d’arte Roberto Papini Segretario Generale dell’Esposizione. Entrambi insistettero per anticipare la mostra al mese di ottobre 1925, invece che a novembre, come proposto da Seishin Hirayama, Vice-Direttore della Società degli Artisti Giapponesi, il quale possedeva l’unico palazzo disponibile per le esposizioni sopravvissuto al terremoto. Inoltre Ojetti puntò il dito contro le incomprensioni e la preparazione insufficiente del comitato organizzatore giapponese, il quale, secondo il critico italiano, non riconosceva appieno il valore della mostra proposta dal Regno d’Italia. I due comitati, quello giapponese e quello italiano non riuscirono a trovare un punto d’accordo circa il mese dell’inaugurazione; fu così che il progetto della mostra venne sospeso nel luglio 1926 per la seconda volta.

    Il politico e militare Ettore Viola, fuggito in Cile il 18 dicembre 1926 dopo aver votato contro il partito fascista, ebbe l’idea di organizzare una mostra-vendita di opere di alcuni pittori italiani moderni che Viola stesso aveva preso in prestito al momento della partenza dall’Italia; ne inaugurò una in Cile, che però finanziariamente si rivelò un fallimento, in quanto ebbe il risultato di coprire appena il costo del viaggio e dell’organizzazione della mostra. Su consiglio del Console Generale italiano a San Francisco, Viola decise di recarsi in Giappone. Il Sottosegretario di Stato, Giacomo Suardo, scrisse una lettera di raccomandazione datata 22 giugno 1927, in cui dichiarò quanto segue: “L’on. Viola, come V. E. [Garbasso, l’ambasciatore del Regno d’Italia a Santiago del Cile] ricorderà, aveva guidato in principio

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  • ——IL RUOLO DEI PROVERBI NE LO CUNTO DE LI CUNTI
    KANAKO HAYASHI
    2024 Volume 74 Pages 75-96
    Published: 2024
    Released on J-STAGE: November 13, 2024
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    Questo saggio si propone di analizzare l’effetto dei proverbi utilizzati nella raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille (1634-36) di Giambattista Basile (1575?~1632), un autore napoletano, e di esaminare come la società napoletana e la società letteraria dell’epoca abbiano influenzato quest’opera. Considerato “il più bel libro italiano barocco” (Croce 1982: XL), Lo cunto è “una delle fiabe più antiche registrate in una forma vicina all’originale e in una forma completa” (Torii 1989: 53). L’opera è scritta in forma di cornice narrativa, con dieci storie raccontate ogni giorno per cinque giorni. Inoltre, alla fine di ogni giorno, dal primo al quarto, è inserita un’egloga, un poema dialogico mirato a fare satira sociale pungente. Oltre al pessimismo che appare in queste egloghe, Lo cunto, pieno di descrizioni sessuali, scatologia e parodie della letteratura classica, può essere considerato come letteratura per adulti piuttosto che un’opera di “intrattenimento per bambini”.

    Nella seconda metà del XVI secolo, la letteratura in lingua toscana trecentesca iniziò a conquistare l’egemonia letteraria. La lingua toscana si diffuse lentamente anche a Napoli, e le opere in napoletano divennero meno numerose. Poiché la sua lingua madre come lingua scritta rischiava di estinguersi, Basile iniziò a produrre opere in napoletano con un amico, Giulio Cesare Cortese (1570?~1646?). È in questo contesto che Lo cunto fu scritto, e la scelta della lingua napoletana per l’opera aveva implicazioni importanti, che vanno oltre la semplice sperimentazione letteraria. Così, ne Lo cunto, dove la lingua napoletana riveste una grande importanza, i proverbi, con la loro struttura caratteristica (ellissi, rime, antitesi, ecc.) e la loro concisione sono la chiave per trasmettere al massimo la vivacità del dialetto napoletano parlato. Il fatto che i proverbi incarnino la lingua napoletana parlata si può evincere dal fatto che circa il 60% dei proverbi ne Lo cunto sono inseriti nel discorso diretto di narratrici e personaggi, sovrapponendosi al tono della lingua parlata. Nei secoli XVI e XVII, c’era un crescente interesse per gli adagi e i proverbi, rappresentato da opere come gli “Adagia” di Erasmo (1500). Pertanto, l’uso frequente dei proverbi ne Lo cunto non era di per sé insolito, ma in quest’opera, Basile, utilizzando i proverbi citati da diversi libri a fini ironici o moralistici, mette in luce anche i proverbi appartenenti al “napoletano parlato”. I proverbi, veri e propri concentrati di saggezza popolare, sono sparsi nell’opera con una frequenza non inferiore a quella delle citazioni da opere classiche.

    Uno studio sul Lo cunto che si focalizza sui proverbi è quello di Speroni (1941), in cui il suo autore elenca i proverbi e le locuzioni proverbiali, riportando i risultati ottenuti dal confronto con altre fonti. Tuttavia, essendo tale studio basato principalmente nell’elencare le varie forme di ciascun proverbio, esso non giunge ad affrontare il ruolo che ogni proverbio assume nel rispettivo contesto. D’altra parte, Rak (Basile 2011: 63-66) ha osservato che i proverbi hanno la funzione di manifestare la cultura popolare in linea con la struttura dell’opera, sottolineando l’importanza dei proverbi introduttivi e conclusivi che esprimono morali. Tuttavia, se i proverbi fossero usati solo per esprimere morali o elementi di cultura popolare, sarebbe sufficiente collocarli solo nelle frasi introduttive e conclusive.

    In questo saggio, l’autrice si impegna a chiarire le molteplici funzioni dei proverbi, finora trascurate dalle ricerche precedenti, e a mettere in luce il tema coerente dell’opera attraverso l’analisi dei proverbi. Nel

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  • FRANCESCO DE GOYZUETA (1825-1907), CONSOLE ONORARIO DEL GIAPPONE A NSPOLI
    POZZI CARLO EDOARDO
    2024 Volume 74 Pages 97-119
    Published: 2024
    Released on J-STAGE: November 13, 2024
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